international analysis and commentary

Perché l’Europa non può attendere nel tempo di Trump

3,123

 Il rischio è che gli europei, vista l’aria che tira in America dopo il midterm, decidano semplicemente di aspettare il 2020. Scommettendo che Donald Trump uscirà di scena. Sarebbe un errore, per varie ragioni. Anzitutto, lo stallo politico interno potrà spingere il presidente americano a giocare una carta di politica estera. Cina, Corea del Nord, Russia e Iran saranno prevedibilmente al centro delle iniziative della Casa Bianca: una somma di mosse bilaterali ma con riflessi decisivi sull’insieme della sicurezza e dell’economia occidentale. Di fronte a scenari del genere, aspettare non è certo una strategia; è una dichiarazione di impotenza. Una seconda ragione deriva dal segnale di fondo offerto dal midterm: che Trump venga o meno rieletto, l’America è comunque cambiata. L’Europa deve capire come e in che direzione. Considerare Trump una parentesi della storia non è particolarmente di aiuto; gli Stati Uniti non torneranno al passato.

Donald Trump a Bruxelles

 

Proviamo a rileggere in questa chiave, e con il distacco della distanza temporale, i risultati del midterm. La cosiddetta “ondata demografica” – secondo cui i Democratici avrebbero ormai un vantaggio strutturale sui Repubblicani, data la composizione del loro elettorato: giovani, donne, e minoranze – comincia ad esercitare un peso reale. La mobilitazione di questa quota crescente della popolazione americana è stata decisiva nel recupero democratico. Ma attenzione: non è detto che il vantaggio demografico sia stabilmente “blu”, anche perché i figli di immigrati hanno abitudini di voto volatili e gli afro-americani hanno comunque alte percentuali di astensione. Donald Trump, con la sua provata capacità di mobilitare i cittadini bianchi non più giovani e i residenti delle aree suburbane e rurali, può ancora contare su una parte molto rilevante dell’elettorato americano. E per questa ragione, nonostante abbia perso la Camera dei Rappresentanti, va considerato favorito nel 2020. E’ bene tenere presente che, dal secondo dopoguerra in poi, solo due presidenti in carica hanno perso la rielezione (Jimmy Carter e George H.W. Bush).

Seconda considerazione rilevante guardando al 2020: entrambi i partiti, Democratici e Repubblicani, sono broken, a pezzi, è stato osservato in un dibattito recente di Aspen a New York. Ciò rende più difficili compromessi bipartisan nell’ambito di un governo “diviso”: l’agenda legislativa tenderà probabilmente a fermarsi. I Democratici devono compiere una scelta immediata: decidere se spostarsi ancora a sinistra (su posizioni marcatamente liberal) o tornare al centro (su posizioni moderate). E’ collocandosi al centro, ma difendendo il diritto all’health care, che una delle tante donne democratiche in ascesa, Kyrsten Sinema, ha strappato ai Repubblicani, per la prima volta in un quarto di secolo, il seggio al Senato dell’Arizona. Questo nuovo mix potrebbe diventare decisivo in alcuni degli Stati in bilico, dove si giocheranno le elezioni presidenziali. Quanto ai Repubblicani, il dilemma che hanno di fronte è a lungo termine: il partito che controlla la Casa Bianca e il Senato non controlla più la maggioranza dei voti nel paese. Ma oggi non pare in grado di “resistere” a Donald Trump, che appare il candidato quasi obbligato del 2020 (a meno di una sua imprevedibile rinuncia o di esiti gravi delle indagini congressuali).

Si arriva così alla terza dinamica rilevante per le elezioni presidenziali: lo scontro politico sarà ancora dominato dalle “culture wars”, i conflitti identitari e la questione migratoria, o si sposterà sull’economia? La previsione largamente condivisa è che la crescita americana stia per rallentare, e quindi il contesto in cui collocare il futuro voto sarà diverso dall’attuale, caratterizzato da un ciclo economico positivo ma in via di probabile esaurimento. Si aggiungono l’entità del debito federale e le incertezze collegate alla politica commerciale di Trump, con il suo impatto ancora non chiaro sul braccio di ferro con la Cina (progressi parziali non sono da escludere). Intanto, l’effetto dei tagli fiscali del primo mandato tenderà a diluirsi, senza avere generato i benefici attesi per la famosa classe media. Nel 2020, in sostanza, lo scarto fra le vecchie promesse elettorali e la loro attuazione sarà misurabile. E a quel punto la battaglia identitaria potrebbe lasciare spazio a rivendicazioni economiche e sociali.

Sono gli ingredienti di un’America assorbita da se stessa; e così divisa all’interno da non potere più funzionare da egemone indiscussa del sistema occidentale. Un’America “post-atlantica”: con cui l’Europa, Trump o non Trump, deve finalmente decidere come rapportarsi. Sicurezza europea (dopo l’annuncio della decisione americana di ritiro dal Trattato INF, sui missili nucleari a medio raggio) e  relazioni commerciali (una tregua è stata raggiunta nell’estate scorsa) sono i terreni su cui l’Ue, dopo le elezioni del 2019, dovrà tentare di “ingaggiare” la Casa Bianca. Con qualche attenzione in più: il dibattito franco-tedesco sulla “European Army” è ad esempio una falsa partenza, se lo sviluppo di una capacità di difesa europea (sviluppo necessario) viene posto come alternativa alla NATO. Nella situazione attuale, l’Europa non ha i mezzi e la coesione politica per una difesa autonoma. Costruirla negli anni, richiederà fra l’altro un chiarimento sulla questione nucleare.

Nel frattempo l’Europa, dopo avere lanciato una cooperazione rafforzata nel settore Difesa, deve investire risorse comuni nell’industria militare (va in questo senso lo European Defense Fund creato recentemente) e costruire capacità di intervento congiunte. L’Europa deve anche pretendere, da Washington, che la discussione sugli equilibri nucleari nel Vecchio Continente non le passi totalmente sulla testa: il rischio, con l’abbandono del Trattato INF, è un ritorno all’indietro, alla crisi degli euromissili di fine secolo scorso.

In materia commerciale qualche progresso possibile esiste: dopo il braccio di ferro sui dazi della primavera scorsa, la tregua raggiunta dalla Commissione Europea a Washington contiene le premesse per un tentativo negoziale, puntando all’azzeramento delle tariffe. Il fallimento del TTIP non è certo di particolare incoraggiamento; ma vista l’esperienza del NAFTA 2 (il nuovo accordo con Messico e Canada, USMCA) un dialogo con la Casa Bianca sui contenuti di nuovi accordi commerciali è possibile; così come sulla riforma del WTO. La Commissione europea, dopo le elezioni del 2019, dovrà considerarla una priorità. E una parte degli osservatori ritiene che, nel dopo midterm, la politica commerciale potrà diventare per la Casa Bianca una priorità equivalente a ciò che è stata la politica fiscale negli scorsi due anni.

Certo, la doppia scadenza elettorale – Europa 2019, America 2020 – non aiuterà. Ma se la Casa Bianca si limiterà a scommettere sulla graduale disgregazione dell’UE e se l’Europa punterà tutte le sue carte sull’uscita di scena di Donald Trump, il fossato fra le due sponde dell’Atlantico diventerà incolmabile. Cosa per nulla rassicurante nel grande disordine globale che stiamo vivendo.