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Il passaggio più rischioso per Erdogan: salvare la crescita economica turca

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 Il momento di crisi del sistema economico della Turchia non è una sorpresa. Lo stesso presidente Recep Tayyp Erdogan ha indetto le elezioni anticipate del giugno 2018 (con diciassette mesi di anticipo sulla scadenza naturale della legislatura) per non dover affrontare gli elettori e il loro scontento in un momento ancora più difficile.

Per comprendere meglio la situazione del Paese bisogna fissare alcuni punti, a cominciare dal paradosso interno: Erdogan ha vinto le elezioni di giugno ottenendo poteri politici quasi illimitati: grazie alla nuova costituzione ratificata dal referendum passato per un soffio lo scorso anno, è allo stesso tempo capo del governo e presidente della repubblica, e la sua coalizione ha la maggioranza in parlamento. Tuttavia, la sua vittoria presidenziale è arrivata con il 52,6% dei voti; dunque, nonostante la dura repressione degli ultimi anni sui centri di cultura indipendente e le forze di opposizione, intensificata dopo il fallito colpo di stato del luglio di due anni fa, il presidente non gode di un consenso granitico.

Inoltre, ciò che accade in Turchia non ha mai un valore esclusivamente interno, isolato da ciò che accade nel resto del mondo. Guardando la mappa si coglie la posizione-chiave del Paese come passaggio obbligato tra Europa e Asia – passaggio politico, economico, commerciale. Ma non solo: la sponda turca del mar Nero si affaccia verso la Russia, e in particolare verso il litorale ucraino e la Crimea; la sponda turca del mar Mediterraneo è rivolta a una zona non meno problematica, sia per i flussi dei rifugiati dal Medio Oriente, che per il nodo di Cipro, che ancora per la scoperta di giacimenti sottomarini di petrolio e gas naturale. Infine, l’importanza strategica della Turchia, uno dei cardini del sistema di sicurezza mediorientale e tuttora membro a pieno titolo della NATO, si comprende semplicemente enumerandone gli stati confinanti: Siria, Iraq, Iran, Georgia, Armenia… Senza contare la questione del Kurdistan.

Questo basta a fare della stabilità della Turchia una questione globale. La Turchia di Erdogan, seppure restando nella NATO, ha imboccato negli ultimi anni un percorso di raffreddamento dei rapporti con gli Stati Uniti (e con la UE, ma per ragioni diverse), culminato con la decisione di appoggiare il fronte russo-iraniano favorevole al mantenimento di Bashar al-Assad al comando della Siria. I soldati turchi hanno anche invaso il Paese, soprattutto con l’obiettivo di impedire l’unificazione delle province siriane a maggioranza curda. Erdogan ha addossato agli Stati Uniti la responsabilità del fallito colpo di stato che nel luglio 2016 ha cercato di spodestarlo, e da quel momento in poi sono stati circa venti i cittadini americani arrestati con le motivazioni più varie, sospettati di spionaggio.

Che l’accusa di Erdogan sia vera o no, è difficile dirlo. Tuttavia, Donald Trump ha subito reagito al crollo della lira turca (che ha perso circa il 35% del suo valore sul dollaro) aumentando i dazi sull’acciaio (del 50%) e sull’alluminio dalla Turchia (del 20%). Questa mossa ha l’effetto immediato di annullare il vantaggio competitivo delle esportazioni turche verso gli USA, dovuto al minore valore della sua moneta; anche se solo il 13% dell’acciaio turco era diretto negli Stati Uniti. Quindi, al netto del sensazionalismo mediatico, la decisione di Trump, a cui nessun altro paese del mondo si è allineato, ha un dubbio impatto effettivo sull’economia turca, mentre ha un grande impatto politico.

Non è sembrato vero infatti, a Erdogan, di poter lanciare una crociata anti-americana (“loro hanno il dollaro, noi il nostro popolo, la nostra legge, il nostro dio”, ha dichiarato) che indicasse all’opinione pubblica turca i “veri” responsabili della crisi economica: i poteri forti guidati dall’America. Il crollo della moneta turca, invece, è dovuto al classico scoppio di una bolla: per continuare a pompare la crescita del Paese, le banche negli ultimi anni hanno prestato soldi e finanziato oltre le soglie di sicurezza, le imprese hanno costruito oltre il necessario, e il governo ha raccolto i frutti in termini di consenso. Classe media (apparentemente) più ricca, grandi opere in serie inaugurate in pompa magna, denaro in abbondanza, e di conseguenza, però, aumento dell’inflazione (al 16%), indebitamento delle banche e delle imprese, difficoltà di riscuotere crediti prestati troppo facilmente, e infine sbandamento del sistema.

E’ la fine del dominio di Erdogan? In realtà, siamo ben lontani da uno scenario simile. Il fatto che il crollo della moneta sia avvenuto due mesi dopo le elezioni fa escludere ogni “regia occulta” internazionale (perché non prima del voto, allora?). L’economia turca ha le sue debolezze strutturali, ma i conti dello stato sono in ordine: il basso debito pubblico (28,5%/pil, un quinto di quello italiano) consente politiche sociali ed economiche che ammorbidiscano gli effetti della crisi; le infrastrutture serviranno allo sviluppo futuro. La banca centrale, d’altronde, è anch’essa sotto il controllo del presidente.

In più, la presa di Erdogan sul potere non si è certo allentata: come in molti altri casi anche recenti – vedi Russia – le sanzioni mirate offrono in realtà una grande arma propagandistica che fa presa sull’unità e sull’orgoglio nazionale, e che si trasforma in un vantaggio per coloro che si volevano colpire. Gli indici di popolarità del presidente hanno raggiunto i massimi al momento dell’invasione della Siria e della presa di Afrin a marzo di quest’anno, e non c’è dubbio che la carta della “guerra economica” sarà giocata fino in fondo da Erdogan. Che ora, in una sorta di riedizione del mussoliniano “oro alla patria”, chiede ai turchi di convertire in lire il loro oro e tutta la valuta straniera che hanno, per rafforzare la moneta nazionale.

Difficile che l’opposizione  possa trovare argomenti convincenti contro il nazionalismo economico. A preoccuparsi di più dovrebbero essere le banche europee – in particolare spagnole: per esempio il 14% dell’utile netto del primo semestre di BBVA, terza banca dell’eurozona per capitalizzazione, viene dalla Turchia. Dopo aver finanziato per anni la crescita della Turchia di Erdogan, possono ora trovarsi esposte.