Tra ordine liberale e legge della giungla

Conversazione con Robert Kagan

L’ordine mondiale liberale a guida americana è sempre stato un sistema imperfetto: ma le alternative erano e sono peggiori. Oggi quell’ordine – e l’alleanza transatlantica, che ne è il cuore – deve fare i conti con minacce sia interne che esterne. Di fronte all’ascesa delle potenze “illiberali”, il liberalismo sembra incapace di dare risposte. Eppure è fondamentale che Stati Uniti ed Europa ritrovino le ragioni della loro alleanza e rinsaldino la liberaldemocrazia.

* Robert Kagan è senior fellow del Project on International Order and Strategy alla Brookings Institution e autore di sei libri sulla politica estera americana, l’ultimo dei quali si intitola The jungle grows back: America and our imperiled world.

 

ASPENIA. Fino a che punto l’“ordine mondiale liberale” è stato davvero liberale? L’era della presunta Pax americana è stata segnata dalla guerra fredda e dai suoi rigidi paletti agli ambiti di effettiva applicazione di quella “Pax”, e l’Occidente è sceso a patti con molti regimi autoritari (e certamente illiberali) al fine di conseguire i suoi obiettivi. Queste opacità di comportamento possono essere considerate una delle cause dell’odierna crisi dell’Occidente liberale? In altre parole: la doppia morale e i compromessi sui princìpi fondamentali hanno pregiudicato la causa liberale a livello mondiale?

KAGAN. Oggi il cosiddetto “ordine mondiale liberale” è oggetto di frequenti critiche. Tra i tanti difetti che gli si rimproverano c’è il fatto di essere stato imposto da un’egemonia americana spesso oppressiva, egoista, ipocrita e incompetente. E in questo c’è del vero: l’ordine liberale è stato creato e sostenuto da esseri umani. Tuttavia, per quante siano le carenze dell’ordine mondiale liberale a guida americana, il punto è: esiste un’opzione migliore?

Si tende ad analizzare la dinamica di quell’ordine attraverso le lenti della guerra fredda. I suoi obiettivi, tuttavia, andavano ben al di là dei rapporti con l’Unione Sovietica. E si dimentica che la maggior parte degli americani aveva accettato il nuovo approccio internazionalista al mondo esterno quando non poteva neppure immaginare che l’Unione Sovietica sarebbe diventata un avversario. Il dispiegamento permanente di forze statunitensi in Europa e in Estremo Oriente ha prodotto una rivoluzione geopolitica, ponendo un freno ai conflitti all’interno di quelle regioni. Nella cornice di tale sistema, la “normale” competizione geopolitica si è praticamente azzerata. Le nazioni che ne facevano parte non erano in competizione per la superiorità militare, non formavano alleanze strategiche rivali, né rivendicavano sfere d’influenza esclusiva. Non essendo necessario alcun equilibrio di potere per mantenere la pace tra di loro, diversamente dal passato, le stesse nazioni potevano dirottare importanti energie e risorse dall’ambito militare a quello economico-sociale. Fino a tempi recenti, quell’ordine ha riscosso un discreto successo.

Il costo di quel successo, tuttavia, è stato molto alto. Sostenere e gestire un ordine liberale è un impegno a tempo pieno. Le politiche concretamente attuate hanno inevitabilmente risentito delle debolezze comuni a tutti gli esseri umani, a prescindere dalle buone intenzioni: mancanza di acume e lungimiranza, egoismo ed egocentrismo, e più in generale l’incompetenza intrinseca a ogni attività umana. Il prezzo dell’esercizio del potere è stato l’ingresso in una terra di nessuno morale, e la perdita di quella che Reinhold Niebuhr ha definito l’“innocenza dell’irresponsabilità”.

Tuttavia, al netto dei suoi errori e delle sue ipocrisie, l’egemonia americana non ha mai toccato un livello di intollerabilità tale da allontanare i membri del club. Al contrario, altre nazioni hanno bussato alla porta per entrarvi. I partecipanti a quel sistema, ieri come oggi, condividono l’implicita convinzione che, per quanto l’ordine mondiale liberale a guida americana sia imperfetto, le alternative realistiche sarebbero quasi sicuramente ben peggiori.

“Kennedy Round” ai negoziati commerciali per il GATT, Ginevra, 1967

 

A: In che modo le nuove tecnologie possono modificare la rotta della politica internazionale? Esiste il rischio che le tecnologie digitali stravolgano la natura degli Stati fino a renderli irriconoscibili e che, di conseguenza, persino le tradizionali nozioni di equilibrio (o squilibrio) di potere perdano ragion d’essere? In una certa misura, l’essenza stessa della democrazia a livello nazionale è influenzata dal modo in cui i cittadini si informano e maturano opinioni. Tutto ciò avrà un impatto sui rapporti tra grandi potenze o sulla geopolitica regionale?

K: Gli sviluppi tecnologici influenzeranno e cambieranno le modalità di interazione tra esseri umani e tra Stati. La natura umana, tuttavia, resta la stessa. Se il secolo scorso ci ha insegnato qualcosa, è che il progresso scientifico e tecnologico e l’espansione del sapere, pur potendo migliorare le nostre vite a livello materiale, non determinano cambiamenti radicali nel comportamento umano.

La tecnologia spesso induce a prevedere svolte epocali. All’alba del XX secolo si pensava che il mondo transatlantico sarebbe stato trasformato da nuove tecnologie capaci di favorire un’economia sempre più globalizzata, e da rivoluzioni nell’ambito delle comunicazioni e dei trasporti che avrebbero accorciato le distanze tra persone e nazioni. Il numero di democrazie nel mondo era raddoppiato, passando da cinque a dieci. Molti credevano che, per dirla con William Jennings Bryan, “l’idea del governo popolare” fosse diventata “così universale” da far sì che nessuno dubitasse del suo “trionfo finale”. Poi scoppiò la prima guerra mondiale.

Analogamente, alla fine del secolo scorso molti osservatori sostenevano che, in un mondo sempre più cosmopolita e interconnesso, lo Stato-nazione fosse da consegnare agli archivi. Oggi, tuttavia, si assiste alla ricomparsa di un nazionalismo e di un tribalismo che sanno cavarsela più che bene nel mondo nuovo di internet.

I progressi a livello di capacità cibernetiche, intelligenza artificiale e automazione apriranno nuovi fronti di competizione geopolitica con “ogni mezzo a parte la guerra”, per citare Tom Wright. Ai fini delle relazioni interstatali, tuttavia, sarà cruciale capire se gli Stati Uniti continueranno a svolgere il ruolo che hanno esercitato dalla seconda guerra mondiale in poi, con l’impiego della forza militare per porre un freno ai conflitti in Europa e in Estremo Oriente. Se quel ruolo fondamentale di Washington venisse meno, le tecnologie in questione potrebbero essere utilizzate in un ambiente molto più competitivo.

 

A: Una caratteristica essenziale dell’ordine internazionale imperniato sugli Stati Uniti che lei descrive, forse ormai sull’orlo del collasso, sembra risiedere nella capacità tutta americana di coniugare hard e soft power – il potere economico-militare e quello delle idee. Il suo successo, tuttavia, è strettamente legato ai progressi economici e alle prospettive di crescita costante. Da questo punto di vista l’ascesa della Cina e di altri Stati “illiberali” – dotati di un’influenza globale o almeno regionale – segna una netta rottura con il passato? In altre parole, il modello americano (idee e ideali) sta probabilmente perdendo lustro, ora che da un capo all’altro del mondo i fattori economici o demografici registrano un cambiamento radicale: sarà questa la sfida più importante nei prossimi anni e decenni?

K: La “rottura con il passato” è frutto dei decenni passati più che di quelli a venire. Gli oltre settant’anni di relativa libertà di scambio, crescente rispetto per i diritti individuali e più o meno pacifica cooperazione tra le nazioni post seconda guerra mondiale sono stati una grande aberrazione storica.

Il mondo non ha marciato dritto e spedito verso il liberalismo. La forma liberale di governo ha visto timidamente la luce alla fine del XVIII secolo. Lo sviluppo del liberalismo, tuttavia, è andato di pari passo con quello del moderno Stato di polizia. Nella Germania, nell’Italia e nella Polonia del XIX secolo i moti liberali furono ripetutamente soffocati dalle potenze assolutiste con il ricorso alla forza, alla repressione e alla censura. E nel XX secolo – l’era del fascismo, del nazismo e del comunismo – era ben difficile parlare di ascesa del liberalismo.

La potenza americana è stata comunque in grado di arginare quei fenomeni: in modo provvisorio dopo la prima guerra mondiale, e più a lungo dopo la seconda. Eppure, l’“idea liberale” non ha riportato una vittoria definitiva. L’ordine mondiale ha abbracciato il liberalismo, la democrazia e il capitalismo non solo perché sono cosa buona e giusta, ma anche e soprattutto perché la nazione più potente del mondo post-1945 era una liberaldemocrazia capitalista.

Oggi è del tutto naturale che, di fronte all’ascesa di nazioni come la Cina, le potenze autoritarie tornino agli usi e costumi di un tempo. Quegli usi e costumi sono plasmati da forze potenti: una geografia immutabile e un patrimonio storico e di esperienze condiviso. La Cina fa proseliti in virtù del suo successo economico, ma beneficia anche del fatto che, in un clima di generale incertezza e insicurezza, la gente tende a rifugiarsi nella tribù, nella razza o nella nazione. In confronto a tutto ciò, specialmente in situazioni di stallo e divisioni, la democrazia può apparire meno energica ed efficace. Di qui l’impressione che il liberalismo sia incapace di dare risposte, e la tendenza a scaricare la colpa sugli ideali illuministici di libertà e cosmopolitismo.

L’Occidente è dunque chiamato a gestire una duplice minaccia, interna ed esterna, all’ordine liberale: sarà questa la sfida decisiva nei decenni a venire.

Scena da una parata in piazza Tien An Men per l’Anniversario della nascita della Repubblica Cinese

 

A: La crisi economico-finanziaria del 2008 è partita dal sistema finanziario statunitense: fino a che punto ha segnato uno spartiacque? È stato allora che i leader e gli elettori del paese hanno perso improvvisamente (o quasi) fiducia nel connubio americano di hard e soft power? L’analisi costi/benefici è cambiata radicalmente?

K: La crisi finanziaria del 2008 ha probabilmente acuito lo scontento o la sfiducia negli esperti, ma le radici del problema sono più profonde, e non c’è da stupirsi che sia venuta meno anche la fede nell’ordine mondiale liberale e nella potenza americana come sua necessaria sostenitrice. Abbiamo vissuto così a lungo nella bolla dell’ordine mondiale liberale che non siamo in grado di immaginare un mondo diverso. Lo consideriamo naturale e normale, persino inevitabile.

Vediamo tutti i difetti dell’ordine attuale e ne vorremmo uno migliore, ma non ci rendiamo conto che l’alternativa più probabile rischia di essere molto peggiore. Agli occhi di noi occidentali, la Storia segue una direzione e una finalità precise. Crediamo nella “modernizzazione”, nello sviluppo economico e politico per stadi, nel nesso tra prosperità e democrazia. Da figli dell’Illuminismo, pensiamo che l’espansione del sapere e il progresso materiale vadano di pari passo con un miglioramento del comportamento umano e il progresso morale. Di qui la nostra convinzione che, al netto di occasionali intoppi e deviazioni lungo il percorso, il progresso sia inevitabile.

Questa chiave di lettura del progresso umano è purtroppo un mito. Eppure, dopo la fine della guerra fredda ben pochi l’hanno messa in discussione. L’ordine mondiale è una di quelle cose cui non pensiamo finché non le perdiamo.

 

A: Lei sostiene che la cultura politica americana non sia mai stata realmente isolazionista, ma dobbiamo chiederci se il governo statunitense sia in grado di pianificare una qualche forma di retrenchment coerente e volontario. È questo che Barack Obama ha cercato di fare? E, se è così, in che misura ci è riuscito? E fino a che punto le differenze tra le presidenze Obama e Trump segnano trend strutturali?

K: Il termine “isolazionista” non rende l’idea di quel che è accaduto negli anni Trenta del secolo scorso e si ripete ai giorni nostri. Oggi come ieri, ben pochi pensano che gli Stati Uniti dovrebbero alzare il ponte levatoio e rompere ogni legame con il mondo esterno. La maggior parte dei critici e degli scettici rispetto alla politica estera americana tradizionale vorrebbe piuttosto che si comportassero da “nazione normale”.

Barack Obama è entrato in carica nel 2008 con un mandato popolare a riportare la politica estera americana a uno standard di normalità. Condivideva l’ortodossia post-guerra fredda secondo cui l’interventismo americano a tutto campo era diventato inutile, insostenibile e controproducente, e si è posto l’obiettivo di riposizionare gli Stati Uniti in un ruolo più limitato e consono alla nuova era di convergenza globale. Lo scarso appoggio politico in seno al Congresso – a maggioranza repubblicana – ai suoi tentativi di sostenere l’ordine mondiale liberale l’ha ulteriormente convinto che gli americani non vedevano più di buon occhio il tradizionale ruolo attivista del loro paese.

Di conseguenza, quando l’ordine mondiale liberale ha cominciato a mostrare nuovi segni di logorio e cedimento, Obama ha fatto quel che il popolo americano evidentemente voleva, cioè poco o nulla. Ha limitato alle sanzioni economiche la risposta statunitense all’invasione russa dell’Ucraina e all’occupazione della Crimea. Ha ridimensionato il ruolo americano in Medio Oriente quando è sorta e tramontata la Primavera araba, quando sono esplosi disordini in Egitto, quando è scoppiata la guerra in Yemen e l’ISIS ha preso il controllo di una fascia di territorio. Persino quando la crisi siriana si è cronicizzata, con centinaia di migliaia di vittime e milioni di profughi che si sono riversati in Europa, Obama è rimasto fermo nella sua determinazione di evitare un coinvolgimento massiccio della potenza americana – il tutto nell’indifferenza dell’opinione pubblica.

L’elezione di Donald Trump non ha fatto che rafforzare questo trend generale. E tuttavia, a prescindere da lui, delle quattro principali figure politiche che nel 2016 occupavano la scena nazionale (Obama, Bernie Sanders, lo stesso Trump e Hillary Clinton), una soltanto era a favore della vecchia “grand strategy americana” – Hillary. L’elezione del 2016 ha così segnato il ripudio del tradizionale ruolo globale dell’America, ma non a causa di Trump. Quest’ultimo ha piuttosto beneficiato di un diffuso umore nazionale.

 

A: Donald Trump ha apertamente rinnegato la maggior parte delle scelte di politica estera del suo predecessore, ma la decisione più importante che sta assumendo è probabilmente quella relativa alla Cina, con la rottura dei vincoli di quasi simbiotica interdipendenza economica che hanno caratterizzato gli ultimi tre decenni o giù di lì. È davvero su questo fronte che si gioca il futuro dell’ordine mondiale, con tutte le altre regioni e reti di relazioni relegate a un ruolo decisamente marginale?

K: Il rapporto usa-Cina non è l’unico fattore decisivo. Il destino dell’Europa come insieme di società liberali, aperte e democratiche è di enorme importanza per il futuro dell’ordine mondiale. Tuttavia, se l’Europa è un pilastro dell’ordine internazionale, l’Estremo Oriente non è da meno. Nell’approcciarsi a Pechino, purtroppo, Trump sta giocando solo una partita geoeconomica, ignorando la dimensione geopolitica. Per la Cina invece, come per le grandi potenze del passato, la geoeconomia e la geopolitica sono legate a doppio filo. Commercio, finanza, diplomazia e forza militare sono altrettanti aspetti della potenza nazionale in senso lato. Se una potenza rivale tenta di limitare la capacità cinese di produrre ricchezza, quali che siano le ragioni o i mezzi, quella viene considerata una sfida geopolitica a tutti gli effetti. E se il vantaggio americano sul versante economico diventasse irrecuperabile, Pechino potrebbe rispondere in termini che gli Stati Uniti non gradirebbero affatto, cioè con una provocazione militare. A tutt’oggi non è chiaro se i funzionari dell’amministrazione Trump si rendano conto che le loro rigide politiche commerciali potrebbero portare dritti allo scontro.

Il discorso sarebbe diverso se la politica commerciale trumpiana fosse parte di una più ampia strategia geopolitica nei confronti dell’ascesa di Pechino, ma non è così. Trump non ha serrato i ranghi con gli alleati europei e asiatici per affrontare le problematicità poste dalla condotta della Cina. Al contrario, il presidente e il Congresso stanno indebolendo gli strumenti a disposizione degli Stati Uniti per affrontare la sfida cinese.

A: La positiva influenza esercitata dagli Stati Uniti come “egemone benevolo” sembra aver funzionato meglio in seno all’alleanza occidentale (e in poche altre parti del mondo), consentendo alle democrazie (liberali e di mercato) di prosperare, dal momento che l’Europa, il Giappone e altri alleati non hanno dovuto preoccuparsi troppo delle grandi questioni di sicurezza e dell’hard power necessario per affrontarle. Tuttavia, persino all’interno del “blocco occidentale” molti sono diventati insofferenti alla tutela americana, e dopo la guerra fredda si è manifestata una forte tendenza a sviluppare una certa autonomia in diversi campi. È stata la rivelazione di un paesaggio inedito (e più gestibile) o un’avvisaglia del ritorno alla giungla? Si può resettare l’alleanza transatlantica per renderla più adatta a una nuova era? O forse è troppo tardi?

K: L’alleanza transatlantica è al cuore dell’ordine mondiale liberale. Ciò nonostante, attorno a quell’ordine non sono mai mancati divergenze e attriti. Gli europei volevano che fosse più rules-based e fondato sulle Nazioni Unite. La visione americana era invece improntata a un “grand bargain”: le altre potenze liberali cedevano l’egemonia strategica agli Stati Uniti, ma in cambio l’America non avrebbe usato quell’egemonia per limitare la loro crescita economica. E non avrebbe insistito per avere la meglio in ogni transazione. Le condizioni di gioco dovevano essere relativamente eque, e talvolta addirittura favorevoli alle altre potenze liberali.

Quel sistema non era perfetto. Tuttavia, a differenza del blocco sovietico, l’egemonia americana non ha mai penalizzato gli alleati al punto da metterli in fuga. Come già accennato, in Europa e in Asia le nazioni bussavano alla porta chiedendo di essere ammesse alla rete di alleanze e partnership economiche statunitensi. L’ordine a guida americana era imperfetto, e lo riconoscevano, ma pur sempre migliore di qualsiasi alternativa realistica.

Certo, gli europei si sono opposti a determinate scelte di politica estera di Washington. Dal Vietnam all’Iraq, hanno criticato una serie di iniziative americane in quanto sbagliate, egoiste e dispotiche. Tuttavia, se l’Europa sta ripiombando in una giungla non è perché gli Stati Uniti hanno fatto troppo, ma perché hanno fatto troppo poco. Da Barack Obama in poi, l’America ha ridimensionato il suo coinvolgimento in Europa e l’impegno per la stabilità regionale. Obama si è rifiutato di mobilitare un adeguato spiegamento di forze per ripristinare una parvenza di stabilità in Siria quando la guerra civile ha riversato un’ondata di rifugiati in Europa. La conseguente crisi ha contribuito più di ogni altro fattore alla crescente popolarità di partiti politici nazionalisti, ultranazionalisti e addirittura dichiaratamente fascisti da un capo all’altro del vecchio continente. Mentre l’impegno degli americani a favore dell’ordine mondiale liberale veniva messo sempre più in discussione, personaggi come Viktor Orbán hanno avuto gioco facile a celebrare lo “Stato illiberale”, e in Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia si è visto un palese arretramento della democrazia.

Affrontare quei rigurgiti di populismo e nazionalismo, in Europa come negli Stati Uniti, è il primo passo verso il ripristino dell’alleanza transatlantica e un suo rinnovamento nei decenni a venire.

 

A: Donald Trump sta volutamente cercando di indebolire l’Europa, ridimensionando il ruolo dell’Unione Europea come attore autonomo a pieno titolo? Come dovrebbero reagire gli europei (collettivamente) alla sfida posta da Washington in un contesto globale instabile?

K: Come nel caso della Cina, l’amministrazione Trump guarda all’Europa attraverso una lente geoeconomica. Trump cerca “vittorie” negli accordi commerciali, anche quando dall’altra parte ci sono alleati di vecchia data. Oggi questi ultimi sono rivali da battere. Sposando la prospettiva del primato commerciale, un certo numero di americani, tra cui il presidente Trump, disprezza l’Unione Europea non meno di tanti britannici ed europei continentali.

Costoro dimenticano tuttavia l’importanza dell’ue e del rapporto transatlantico per tenere il vecchio continente al riparo da contenziosi geopolitici. L’Unione vincola i paesi europei con un legame che può risultare fastidioso e causare conflitti, ma al tempo stesso minimizza il rischio di una disintegrazione dell’Europa stessa. Gli americani dimenticano che l’ue è l’organizzazione che, assieme alla nato, contribuisce a mantenere la stabilità a livello continentale. Sono quelle due istituzioni a rassicurare i vicini della Germania e i tedeschi stessi. E a contenere le dispute territorial-nazionaliste tra Stati dell’Europa centrale e orientale. È arduo credere che un’Europa senza l’ue possa rimanere un’entità postmoderna pacifica.

Nella fase attuale, con la sfida posta dagli Stati Uniti e la crisi della democrazia che imperversa nel vecchio continente, gli europei devono innanzitutto irrobustirsi. Populisti come Marine Le Pen in Francia e Geert Wilders in Olanda sono stati sconfitti nelle elezioni dei rispettivi paesi, ma il fatto che tale esito sia stato accolto con un generale sospiro di sollievo dà la misura di quanta strada abbiano fatto i partiti della destra nazionalista. Gli europei devono rafforzare le proprie istituzioni e ritrovare la loro unità per risolvere la “questione democratica” che, come ha osservato Ivan Krastev, è “al cuore dei problemi dell’Europa”. Gli Stati Uniti devono assumersi le proprie responsabilità per quel che è successo all’Europa – sia sotto l’amministrazione Obama sia sotto l’amministrazione Trump. Ma solo gli europei possono rinsaldare la liberaldemocrazia in casa propria per tutelarla in un mondo nel quale è sempre più sotto assedio.

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