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Analisi e intelligence: la nuova sfida che ci viene dal Medio Oriente

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Nell’attuale fase politica internazionale, i servizi di sicurezza si trovano a fronteggiare una sfida inedita, scomoda e per certi versi senza una sponda politica unitaria da parte delle autorità governative.

In un contributo del marzo scorso apparso su Aspenia online, si ricordava – citando John Locke – come l’intelligence moderna viva nel “crepuscolo della probabilità”. La citazione di Locke riassume con forza visiva l’ambivalenza di questi anni per il lavoro di analisi, previsione e contrasto alle minacce di sicurezza.

In tema di antiterrorismo i servizi, che hanno ricevuto critiche dirette (“devono proteggerci, non dare allarmi”), vivono la contraddizione di avere potenziale carta bianca sul suolo nazionale ma di scontrarsi con la scarsa collaborazione da parte dei servizi di altri paesi.

Scenari simili non sono inediti. Per limitarci al recente passato la scomparsa del volo Malaysia 370 (8 marzo 2014) ha creato non pochi problemi tra Cina e altri paesi (vedi Gran Bretagna) dal momento che questi lasciavano intendere di avere in loro possesso informazioni sensibili, senza però rivelare quali e soprattutto come le avessero raccolte. Fornire un’informazione equivale spesso a far scoprire un proprio posizionamento strategico, una propria fonte, un canale privilegiato.

La tragedia del volo russo Metrojet 9268, abbattuto da una bomba nel deserto egiziano (31 ottobre 2015) presso Sharm el-Sheikh, ha replicato questa dinamica. Sia dal punto di vista delle forme che della sostanza le lamentele del Cremlino per l’asserzione anglo-americana che si trattasse di un attentato a pochi giorni dal disastro sono logiche e giustificate – anche se poi Mosca ha dovuto ammettere che di terrorismo si trattava, quasi certamente da attribuire a ISIS.

La regola d’oro delle indagini complesse, e gli incidenti aerei rientrano a pieno titolo in questa categoria, è semplice e nota a tutti: follow procedures. Seguire le procedure è l’unica garanzia affinché la verità venga accertata o si giunga al risultato più verosimile ad essa.

Quando l’aviazione civile americana perse il volo TWA 800 (17 luglio 1996), esploso nei cieli 12 minuti dopo il decollo, a spiegare l’incidente fu l’indagine meticolosa basata sulle procedure condotta dalle autorità. L’FBI all’epoca cercò nei primi giorni ogni minimo dettaglio per scovare eventuali indizi di un attentato, e quando furono trovate tracce di esplosivo fu solo grazie alle procedure e ai controlli incrociati che si scoprì come il velivolo fosse stato usato per trasportare truppe durante la prima guerra del Golfo e quella fosse la reale origine dei residui di esplosivo nei rottami. La vera causa del disastro (esplosione del serbatoio centrale) fu scoperta appunto grazie alla regola d’oro: pazienza e follow procedures. L’inchiesta durò quattro anni e un mese. È dunque chiaro perché gli investigatori russi non hanno avvallato la precoce conclusione anglo-americana sul disastro del 31 ottobre, anche se molti indizi sin dal primo momento lasciavano pochi dubbi rispetto alla natura criminale dell’incidente, confermata ufficialmente alla fine di novembre.

La vicenda del volo Metrojet ci mette dunque di fronte all’evidenza in cui i servizi di diversi paesi tra i più avanzati in questo settore non collaborano a sufficienza, tendendo a mettersi reciprocamente sotto pressione, mentre i servizi dei paesi alleati come l’Egitto mostrano falle clamorose. Nel caso di Sharm el-Sheikh la domanda sconvolgente non è come sia stato possibile ai terroristi eludere i controlli (che sono risibili in quello scalo), ma come con un numero massimo di 30 individui autorizzati ad avvicinare l’aereo (ammesso che la cifra sia attendibile) non si sia ancora trovato il responsabile.

Il crepuscolo della probabilità s’infittisce quando le informazioni, che sono vere e proprie armi, non circolano secondo il flusso della logica, permettendo agli investigatori di collocare in ordine razionale i tasselli – invece che a caso.

Durante la prima guerra del Golfo (1991) le conferenze stampa del generale Norman Schwarzkopf – rese famose nel mondo dalla CNN – avevano il compito d’illustrare all’opinione pubblica lo svolgimento delle operazioni alleate, specie aeree (durante l’operazione di terra ci fu invece un embargo), fornendo dettagli sulle forze impiegate e sullo stato complessivo della campagna militare. Schwarzkopf, memore di errori precedenti commessi in Vietnam e a Grenada, è la figura che ha cambiato per sempre il rapporto tra militari e stampa, ma il conflitto siriano ora sta mettendo in scacco quel paradigma di trasparenza.

Le missioni aeree contro l’ISIS, che in questi giorni sembrano essersi intensificate come revanche francese e russa per gli attentati di Sharm el-Sheikh e Parigi, sono quanto di più nebuloso si possa immaginare. Quante missioni, con quali obiettivi, con quali alleati sul terreno? E l’aviazione americana – come le forze speciali sul terreno – dove e come hanno agito sinora?

Il 20 novembre scorso la Francia ha spinto il Consiglio di Sicurezza dell’ONU alla seguente dichiarazione formale: “autorizzate tutte le misure contro l’ISIS”. Come si tradurrà questo indirizzo? Da una parte, corroborato anche dalle più recenti dichiarazioni del presidente Obama, si tratta di un whatever it takes, ma dall’altra non specifica neppure la composizione dell’alleanza anti-ISIS e l’eventuale strategia.

Gli sviluppi ci diranno se la soluzione del problema Califfato è ancora secondaria all’insieme degli interessi nazionali – nessun paese escluso – e se i fatti di Parigi (e Sharm, e Beirut, ancora più gravi in termini di vittime) sono o non sono un “nuovo 11 settembre” come è stato paventato. Tra le tante scelte e asserzioni fallaci della presidenza di George W. Bush, l’esportazione forzata della democrazia in primis, l’unica previsione centrata sembra essere stata la consapevolezza che la guerra al terrorismo sarebbe durata molti anni.

In questo l’Occidente ha delle responsabilità? Può darsi, come può essere vero il contrario. Ma guardando alle strategie per il futuro non ha alcuna importanza. È comunque probabile che – tra riforme della Costituzione francese e leggi speciali – dovremo abituarci a situazioni come quella di Bruxelles negli ultimi giorni di novembre: una situazione per certi versi surreale, con la città paralizzata dall’allarme massimo decretato dalle autorità belghe in quella che è anche la “capitale d’Europa” e la sede del Quartier Generale della NATO. Se si aggiungono al quadro d’insieme l’abolizione temporanea di Schengen e le tante ambiguità sulle politiche dell’immigrazione, possiamo dire che cambierà più la vita in Europa che in Medio Oriente, dove l’instabilità è moneta corrente, l’opinione pubblica un fattore totalmente residuale, il dialogo interreligioso una chimera e la democrazia non è (quasi) mai pervenuta.

Intanto, la discrepanza tra la parziale ma importante convergenza di alcuni interessi nazionali e la scarsa collaborazione tra i servizi si riflette naturalmente a livello di cancellerie e arriva fino al Palazzo di Vetro. L’ONU, nel suo settantesimo anniversario, vive un momento di rara pressione. Le alleanze non stanno cambiando totalmente di segno, ma alcuni turning point si sono compiuti: USA e Iran dialogano, e sembrano intendersi più di USA e Arabia Saudita o USA e Israele. La Turchia è diventata una (inaffidabile) potenza regionale con la quale bisogna scendere a patti. La Russia ha un potere d’interdizione anche assai lontano da Mosca (il caso siriano lo dimostra) che è stato sottovalutato dall’Occidente. L’Europa, infine, parla a più voci (negli ultimi giorni il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker e il presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem si sono clamorosamente contraddetti sulla deroga al patto di stabilità per la lotta al terrorismo) e viaggia a truppe sparse: la fallimentare gestione del problema immigrazione lo conferma ogni giorno.

Se la frase di Locke lumeggia il limite dei moderni apparati di intelligence richiamandosi al logos filosofico, anche alcuni fenomeni di costume sottolineano la posta in gioco. Nell’ultimo episodio della saga dell’agente 007 al cinema, il funzionario di Sua Maestà combatte da una parte contro la famigerata Spectre, ma dall’altra fronteggia un nemico “interno”, cioè il pericolo di una riforma dei servizi inglesi (simultanea a quella di altri paesi) che obbliga le agenzie a condividere tutte le informazioni in un unico database.  L’equazione “Spectre uguale database unico”, pur veicolata da un prodotto di entertainment, rende bene l’idea di come i rapporti stretti tra alleati e la condivisione d’informazioni non sempre siano la soluzione migliore agli occhi delle governance nazionali. E come la cosiddetta minaccia globale dell’ISIS sia percepita meno globale di quanto appaia. Vedremo ora se lo sarà la risposta, e per tempi e per intensità.