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Grecia e Brexit: l’estate calda dell’UE

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 La gestione delle crisi sembra essere diventata la “nuova normalità” dell’Europa. Un tempo si diceva che era bene che fosse così. Grazie alle crisi – questa la tesi – l’Europa si fortificava. Oggi è una storia che non convince più.

Dal 2009, l’Europa è stata investita dai riflessi della crisi finanziaria (debito sovrano e banche), dalla crisi greca (con le lacerazioni conseguenti nei rapporti Nord-Sud), dalla guerra in Ucraina (con le tensioni che ne sono derivate sull’asse Ovest/Est) e infine dalla crisi dei rifugiati, che ha messo insieme i punti cardinali di una crescente ri-nazionalizzazione. E oggi stiamo aspettando di capire se, con il referendum del 23 giugno, la Gran Bretagna uscirà o resterà nell’Unione Europea. Muri e “Brexit” dominano il dibattito attuale, scatenando tensioni prima che passioni. Ma la realtà è che nessuna delle crisi precedenti è stata davvero risolta. Mentre si discute di Brexit torna in primo piano anche il rischio Grecia: la possibilità niente affatto teorica che falliscano gli sforzi fatti per salvare le sorti dell’anello più debole e vulnerabile dell’euro.

Non molti giorni fa, Christine Lagarde, Direttore del Fondo monetario internazionale, ha affermato di non volere più sentire parlare di Grexit negli incontri internazionali. È uno scenario, questo il messaggio da Washington, che non va preso in considerazione. Per evitarlo, tuttavia, sia la Grecia che l’Europa devono diventare attori più razionali. Lagarde ha scritto infatti chiaramente, in una lettera rivolta ai ministri delle finanze europee in vista della riunione dell’eurogruppo del 9 maggio, che le condizioni imposte alla Grecia in cambio degli aiuti finanziari concordati nel 2015 non sono realistiche. Il Fondo esprime così le sue riserve sul modo in cui gli europei stanno gestendo la crisi greca: in particolare, Lagarde “non ritiene possibile” che Atene arrivi a conseguire, a furia di misure votate dal Parlamento e respinte dalla gente, un avanzo primario di 3,5 miliardi di euro nel 2018. Se Bruxelles vuole il Fondo dalla sua parte deve fissare obiettivi sostenibili: cosa non facile per un’Europa ormai abituata a compromessi e rinvii.

Resta il punto sostanziale: la Grecia – per equilibri politici, condizioni economiche e resistenze sociali – ha fatto un’enorme fatica ad adottare le misure già richieste (riforma delle pensioni, tagli fiscali) come condizione per lo sblocco della nuova tranche del piano di aiuti di 86 miliardi di dollari. Molto più di Spagna, Portogallo e Irlanda, la Grecia è un “paziente” difficile e vulnerabile. Vista dall’esterno, Atene sta facendo dei progressi; ma difetta ancora – sostengono i paesi più rigidi del Nord – di responsabilità nazionale, sia nella gestione della propria economia che nei controlli dei flussi migratori. Vista da Atene, che punta su una ristrutturazione del debito, l’Europa manca ancora di sufficiente solidarietà in entrambi i campi. La combinazione delle due crisi  rende più difficile la situazione.

E quindi – al di là del mezzo passo in avanti dell’Eurogruppo – conviene tornare a riflettere sulla domanda di fondo: la Grecia, con il suo 3% scarso del pil europeo, e’ un problema sistemico per l’Unione? Mentre si discute di Brexit, stiamo in effetti trascurando un potenziale rischio Grexit?

Brexit (possibile ma improbabile) e Grexit (improbabile e basta) avrebbero una natura diversa, naturalmente. Nel caso della Gran Bretagna, l’uscita eventuale segnerebbe una sorta di ritorno all’anima “insulare” dello United Kingdom, che indebolirebbe entrambi, UK e UE: ci vorranno anni prima di riuscire a regolare di nuovo gli accordi economici e commerciali fra Londra e l’Europa continentale. Uno scenario Grexit sarebbe molto meno rilevante per il dinamismo del mercato unico; si tratterebbe, tuttavia, della prima vera frattura della zona euro. Per questa ragione – la dimostrazione tangibile che si può tornare indietro dalla moneta unica – Grexit avrebbe probabilmente un significato simbolico e politico ancora più rilevante di Brexit. E se le due questioni si sommassero, sarebbe la fine dell’UE per come la conosciamo oggi. Si aprirebbe in modo molto più esplicito, invece, il dibattito semi-nascosto che aleggia da anni: la costruzione di un’eurozona più piccola e più coesa, che graviti sull’area tedesca allargata, associandovi la Francia e i paesi in grado di essere parte di un “nucleo duro”. Quella “Kern-Europa” immaginata due decenni fa dall’attuale Ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, e mai davvero abbandonata come ipotesi di scuola. 

Per l’Italia, questo scenario evoca da sempre un rischio di esclusione: tanto più nelle condizioni di oggi, quando la crisi economica greca e la crisi di Schengen tendono a rafforzarsi a vicenda, “esponendo” i paesi mediterranei. In questa Europa che vive di forti pulsioni nazionali e di decisioni comuni lente e sempre parziali, l’Italia ha il preciso interesse ad evitare che l’UE si spacchi  sull’asse Nord-Sud­. Il rischio esclusione non va d’altra parte esagerato, fino a diventare una sindrome: l’importanza comparativa dell’economia italiana fa sì che un euro senza l’Italia non converrebbe alla Francia né alla Germania stessa. E segnerebbe, prevedibilmente, la fine vera e propria della moneta unica. Tutto questo non è particolarmente consolante e non elimina il dato di fondo. Il nostro paese deve comunque prepararsi ad affrontare quella che potrà diventare la prima conseguenza di un’Europa che cominci a perdere dei pezzi: la spinta verso un’Unione ancora più differenziata, con un nucleo portante ristretto di cui l’Italia deve avere la forza economica e politica di essere parte.

 

Una versione di questo articolo è stata pubblicata su La Stampa il 10 maggio 2016.