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La Turchia sotto attacco e gli interessi occidentali

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La Turchia è oggi investita da un turbine di conflitti violenti che rischia di lacerare la struttura politica, sociale ed economica del paese. L’attentato del 10 ottobre contro una marcia pacifica (e per la pace con i curdi) è solo il più recente episodio di uno scontro sul futuro del “modello turco”. Uno scontro che coinvolge attori esterni, oltre che interni. Il gruppo dirigente del presidente Erdoğan e del suo AKP (l’islamista Partito per la Giustizia e lo Sviluppo) ha certamente molte responsabilità per aver fatto virare l’evoluzione del paese verso un sistema (di nuovo) semi-autoritario con caratteri non più pienamente laici – imitando proprio i suoi avversari nazionalisti nella loro sfiducia verso una democrazia inclusiva. Intanto, nessuno ha avuto il coraggio e la capacità di gestire con pazienza e lungimiranza la delicatissima questione curda, che richiede anzitutto una visione aperta dello Stato e della società. Ma, a onor del vero, va ricordato che l’esplosione prima dell’Iraq e poi della Siria hanno creato condizioni quasi impossibili per una graduale operazione di confidence building con i curdi dell’Anatolia – troppo potenti le forze centripete determinate dalla creazione di due semi-Stati curdi appena oltre il confine.

Infine, proprio le frontiere meridionali del paese sono diventate talmente porose da far sì che tutte le infezioni del disastro siriano-iracheno siano state importate (e talvolta poi ri-esportate) in territorio turco. La situazione è stata poi aggravata dalle scelte di politica estera compiute da Ankara, con una sovra-esposizione nel conflitto siriano che ha finito per fare della Turchia un vero e proprio belligerante.

Detto ciò, ci sono anche diverse responsabilità europee, almeno indirette, a cominciare dalla gestione poco trasparente e al tempo stesso poco accorta del dossier-adesione con Ankara (e della questione cipriota): nell’ultimo decennio Bruxelles ha finito per inimicarsi la maggioranza dei turchi, che hanno così sostenuto l’AKP nella ricerca di una “via nazionale” all’affermazione economica – fino a pochi anni fa, con ottimi risultati – e alla diplomazia regionale – con ambizioni eccessive, alcuni successi parziali e poi un durissimo risveglio. Di certo, l’Unione Europea si è illusa se l’obiettivo, nel tenere la Turchia a distanza, era quello di evitare alcuni possibili effetti dell’adesione o forse anche soltanto di una partnership davvero “speciale”: un danno alla presunta coesione politica della UE, massicce migrazioni per ragioni economiche, e il contagio dell’instabilità a Sudest. Su tutti questi fronti, è evidente che l’Europa sta soffrendo moltissimo, con o senza Ankara al tavolo. E sta cercando alla fine proprio la collaborazione pragmatica del governo turco per la gestione dei flussi migratori.

Infine, in tutto ciò vanno ricordate le responsabilità americane: con l’invasione dell’Iraq nel 2003 si è innescato un processo di allontanamento geopolitico della Turchia da Washington – e indirettamente dalla NATO – di cui abbiamo tutti pagato il prezzo in varie occasioni. Soltanto il collasso della Siria ha spinto l’Alleanza a riaffermare la garanzia di sicurezza del Trattato Nordatlantico a favore di Ankara (contro Assad, contro ISIS, ora perfino contro le incursioni dei caccia russi), ma ciò non poteva bastare a ricucire i rapporti di fiducia con la classe dirigente e l’opinione pubblica turche. Anche gli Stati Uniti, in sostanza, hanno considerato scontata la fedeltà occidentale del paese anatolico, senza capire quanto stesse cambiando la sua percezione di (in)sicurezza in un vicinato in totale subbuglio.

Il sistema politico turco è ora sotto attacco diretto; le bombe mettono in discussione proprio quell’equilibrio instabile che ha tenuto comunque in vita la possibilità di una “ripresa democratica”, potremmo dire. Il rapporto tra società e Stato è già indebolito da molteplici linee di frattura: tra un modello laico e uno che si spira all’Islam politico, tra uno inclusivo (in grado potenzialmente di sciogliere il nodo curdo, almeno nel tempo) e uno autoritario; ma c’è anche la frattura tra un paese integrato nel sistema occidentale con un’economia di mercato vibrante e dinamica, e quello di paese statalista che punta tutto sul nazionalismo.

Le tante dinamiche interne rendono davvero difficile, per l’Europa (e gli Stati Uniti), formulare una linea coerente con gli obiettivi occidentali (a loro volta in parte contraddittori): Erdoğan continua imperterrito a perseguire la sua visione della Turchia, e sembra ancora tentato di strumentalizzare quest’ultimo episodio violento per attaccare gli avversari politici – a cominciare da coloro che vorrebbero integrare pienamente i curdi nella società civile. Dopo aver perso la maggioranza assoluta in parlamento alle ultime elezioni proprio a vantaggio del partito pro-curdo (ma non solo curdo) HDP, il presidente ha ordinato di proseguire con le operazioni militari contro il movimento curdo militante (il PKK) nel Sud-Est, e le forze di sicurezza hanno già disperso alcune manifestazioni filo-curde e anti-governative.

Eppure, nonostante le gravi pecche della democrazia in stile Erdoğan – che è stato giusto criticare negli ultimi anni di involuzione – la Turchia di oggi rimane pur sempre un’eccezione positiva in una regione molto conflittuale, molto violenta e assai poco democratica. L’Europa non ha alternative a una sorta di Realpolitik dei valori: deve sostenere apertamente Ankara in un momento di estrema difficoltà. Ci sono tempi e modi opportuni per condannare le scelte specifiche di un governo, ma nell’immediato si tratta anzitutto di non lasciare i turchi da soli a fronteggiare i loro nemici esterni e le loro fortissime tensioni interne. Per ora l’integrità istituzionale del paese passa senza dubbio per il governo in carica, eletto regolarmente anche se controverso e certo meno popolare che in passato; dopo gravi errori politici commessi da più parti, è necessario tenere la barra diritta sui fondamentali interessi comuni alla Turchia e all’Occidente.