international analysis and commentary

Investimenti in Europa: perché vigilare

1,929

La Cina è il primo esportatore mondiale e il secondo importatore, dopo gli Stati Uniti. La quota mondiale dell’export cinese è salita dal 3% nel 1995 al 13% circa negli ultimi anni e quella dell’import dal 2,5% a oltre il 10%. Il mercato cinese è così diventato uno dei tre baricentri degli scambi mondiali, insieme all’Europa e agli Stati Uniti, con una sfera di influenza che si estende a tutte le principali economie asiatiche, all’Australia, a molti paesi sudamericani, tra cui il Brasile e l’Argentina, e anche ad alcune nazioni africane, come il Sud Africa[1].

 

QUALE LEADERSHIP CINESE? Il peso della Cina è aumentato anche per gli scambi con l’estero dei paesi europei. È forte soprattutto il legame commerciale con la Germania, in entrambi i sensi di marcia. In particolare, l’export tedesco verso la Cina è specializzato nei settori dei macchinari e impianti, degli autoveicoli e delle componenti elettriche ed elettroniche. Mentre la penetrazione dell’import cinese nel mercato tedesco, e più in generale in quello europeo, è molto elevata nei prodotti elettronici di consumo. Le esportazioni italiane, invece, sono relativamente poco presenti sul mercato cinese. Uno dei principali motivi di questo ritardo è dovuto alla scarsa partecipazione delle imprese italiane nelle filiere di fornitura alle imprese cinesi.

La Cina, infatti, ha acquisito un ruolo centrale nel commercio mondiale grazie all’inserimento a valle delle cosiddette catene globali del valore, cioè alla fine di processi produttivi sempre più frammentati a livello internazionale, sfruttando l’enorme disponibilità di forza lavoro a buon mercato. Una strategia favorita dall’ingresso da Pechino nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) e dall’apertura delle frontiere cinesi agli investimenti esteri in alcuni settori, specie tecnologici. Si stima, infatti, che quasi metà dell’export cinese sia generato da imprese che hanno quote di capitale estero.

Le produzioni cinesi sono così diventate il terminale di un’area asiatica fortemente integrata, che comprende Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Malesia e Singapore, con il ruolo di assemblatore finale di semilavorati ad alto valore aggiunto prodotti all’estero. In questo modo, la Cina ha acquisito una posizione di leadership negli scambi internazionali anche in settore tecnologici, come l’elettronica.

Tuttavia, quella cinese rimane un’economia in via di sviluppo, con un reddito pro-capite di 17.000 dollari nel 2017 (in parità di potere d’acquisto), contro i quasi 60.000 dollari negli Stati Uniti. L’attuale sfida per la Cina è passare da un modello di crescita incentrato su export e manifatturiero a uno basato sui consumi interni e sui servizi, generando più lavoro qualificato e ben retribuito e investendo, anche all’estero, in settori strategici. Il piano “Made in China 2025” punta su comparti ad alto valore aggiunto, come le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, la robotica, i nuovi materiali, l’aerospazio, l’auto elettrica e la biofarmaceutica.

La nuova strategia cinese di portare dentro i confini nazionali le produzioni alla frontiera tecnologica, risalendo lungo le catene globali del valore, pone la Cina in diretta competizione con le attività delle economie avanzate, Stati Uniti ed Europa in particolare. Mettendo a rischio i redditi associati a queste produzioni, generati sia dai posti di lavoro altamente qualificati sia dalla proprietà intellettuale, come i brevetti e i software.

Ci sono anche motivazioni legittime di preoccupazione, dovute al fatto che la Cina è un’economia non di mercato, in cui l’intervento dello Stato rimane capillare. In particolare, i sussidi distorcono i prezzi all’export di numerosi prodotti (il cosiddetto dumping), per esempio i metalli. Inoltre, l’acquisizione di conoscenze proprietarie avviene anche in modo forzato dalle imprese estere, specie nei settori hi-tech, attraverso pratiche scorrette che riguardano le richieste di joint venture, le restrizioni agli investimenti diretti esteri, le procedure amministrative opache, le assegnazioni discriminatorie di licenze e vere e proprie intrusioni informatiche.

Negli Stati Uniti l’amministrazione Trump ha varato dure politiche protezionistiche, imponendo dazi alle importazioni soprattutto dalla Cina, che, causando reazioni uguali e contrarie da parte dei paesi colpiti, hanno effetti dannosi per tutti, fortemente destabilizzanti a livello mondiale, perché distorcono i flussi di scambio e interrompono le catene globali del valore[2]. Ciò non fermerà, anzi potrebbe accelerare, una rilocalizzazione produttiva verso il mercato cinese, perché quest’ultimo sta diventando, con la crescita di redditi e consumi interni, il principale mercato finale dei beni a media e alta tecnologia.

 

LA SCOMMESSA SU SMARTPHONE E AUTOVEICOLI. È molto istruttivo analizzare il caso di due settori, in cui la produzione è fortemente frammentata a livello internazionale: l’elettronica (in particolare gli smartphone), e gli autoveicoli.

Nei beni elettronici di consumo, la Cina è già ampiamente leader mondiale, con una quota di poco meno del 40% dell’export globale; percentuale che sale addirittura al 75% per gli smartphone. Le prime due case produttrici di smartphone, però, non sono cinesi: Samsung è di proprietà sudcoreana e Apple è statunitense. L’apparente contraddizione si spiega con il fatto che la quasi totalità degli smartphone Apple, e una parte significativa di quelli Samsung, sono prodotti in Cina. All’interno dei confini cinesi avviene solo l’assemblaggio, un’attività a bassissimo valore aggiunto: si stima che, sui 650 dollari del prezzo finale dell’iPhone 7, solo 6 dollari rappresentino i costi di assemblaggio; il resto è dovuto ai componenti intermedi, alla distribuzione, alle royalties e soprattutto ai margini della casa produttrice americana.

Allo stesso tempo, la domanda cinese di smartphone sta crescendo a ritmi molto elevati, favorendo l’emergere di numerose aziende domestiche (Huawei, TLC-Alcatel, OPPO, Vivo, Xiaomi e ZTE), che ormai detengono complessivamente più della metà del mercato globale. Ciò si è accompagnato a upgrading tecnologici: il processore Huawei è di produzione cinese e la stessa Samsung svolge a Pechino attività di ricerca sulle nuove tecnologie di comunicazione mobile.

Il quartiere di Jiefangbei, a Chongqing, il principale distretto finanziario della Cina interna

 

I dazi degli Stati Uniti sui prodotti cinesi, per il momento, non colpiscono gli smartphone: una mossa che penalizzerebbe, in primis, la stessa Apple. L’amministrazione americana, invece, ha bloccato l’utilizzo di prodotti Huawei e ZTE da parte delle agenzie governative e dei loro fornitori, per ragioni di sicurezza nazionale. Per lo stesso motivo, l’Australia ha vietato l’utilizzo della nuova tecnologia mobile di queste aziende.

Nel settore degli autoveicoli, invece, i prodotti cinesi detengono solo una piccola quota dell’export mondiale, ma il mercato domestico è il più grande del mondo e rappresenta il 30% della domanda globale. In particolare, la Cina è un grande mercato di sbocco per le produzioni tedesche, sia direttamente sia attraverso le catene globali del valore. Molti autoveicoli Daimler-Mercedes e BMW venduti in Cina, infatti, sono prodotti nelle fabbriche degli Stati Uniti.

Di conseguenza, i controdazi cinesi sui prodotti americani, compresi gli autoveicoli, hanno avuto l’effetto di colpire anche le aziende tedesche: Daimler-Mercedes ha rivisto al ribasso gli obiettivi di vendita nel 2018. Con l’effetto di accelerare lo spostamento della produzione oltre il Pacifico: BMW (prima esportatrice di auto dagli Stati Uniti) entro fine anno prevede di produrre in Cina con il partner locale Brilliance e Daimler ha avviato una joint venture per la produzione di auto elettriche con il gruppo cinese Geely (proprietario di Volvo e del 10% delle azioni della casa tedesca). Anche la rinegoziazione degli Stati Uniti dell’accordo commerciale nafta con Messico e Canada, che rende più costoso per le aziende produrre negli Stati Uniti, potrebbe avere l’effetto non voluto di accelerare questa tendenza.

La Cina, dal canto suo, sta proseguendo nella liberalizzazione del mercato interno, secondo una precisa tabella di marcia di rimozione dei limiti al possesso azionario estero nel settore delle auto, oltre che nella cantieristica navale e negli aerei. Limiti già eliminati nell’auto elettrica, dal 2020 nel comparto commerciale e dal 2022 per i veicoli passeggeri.

 

INVESTIMENTI IN CRESCITA ALL’ESTERO. Oltre ad avere una grande capacità di attrarre capitali esteri, la Cina ha accumulato negli anni ingenti risorse da reinvestire negli altri paesi, diventando a sua volta un grande investitore internazionale. La strategia di investimento cinese è molto diversificata tra paesi e settori. I capitali pubblici svolgono un ruolo di primo piano, ma la partecipazione delle imprese private è aumentata negli ultimi anni, fino a raggiungere una quota vicino al 50% (escludendo le costruzioni, in cui i fondi sono quasi tutti pubblici).

L’Europa, nel suo complesso, è stata la prima destinazione degli investimenti cinesi nel periodo 2005-2018, con Gran Bretagna, Svizzera e Germania come mete privilegiate. I flussi di capitale cinese verso la Germania, in particolare, sono aumentati velocemente negli ultimi due anni (13 miliardi di dollari nel 2017). Quelli diretti negli Stati Uniti, invece, sono crollati, da livelli molto elevati (4,5 miliardi nella prima metà del 2018, rispetto ai 50 nel 2016).

Un discorso a parte merita il progetto della Belt and Road Initiative (BRI) molto sponsorizzato dal governo cinese, allo scopo di costruire un network di infrastrutture commerciali attraverso Asia, Medio Oriente, Europa, Africa e parte dell’America. Si stima che il progetto abbia generato dal 2013 a oggi più di 1.110 progetti di investimento, per una spesa superiore a 750 miliardi di dollari.

Inizialmente l’iniziativa riguardava 65 paesi, lungo sei corridoi economici, via terra, in Asia. Ora comprende 76 paesi, con l’aggiunta di un’importante via marittima, che collega paesi come Indonesia e Filippine e, soprattutto, costituisce una strada di accesso privilegiata, attraverso il canale di Suez, all’Europa e all’Italia.

Si sono ampliati anche gli obiettivi della via della seta per l’economia cinese. Quelli iniziali riguardavano l’accesso alle materie prime nei paesi vicini e l’ampliamento delle catene di fornitura in Asia, anche allo scopo di dislocare i processi produttivi a minore valore aggiunto nelle economie più povere. Adesso i finanziamenti riguardano molti altri ambiti: movimenti delle persone, cultura, turismo, istruzione, spettacolo e anche cooperazione finanziaria, tecnologia e trasferimento di conoscenza.

Più di tre quarti degli investimenti della Via della Seta, comunque, sono concentrati nei settori dei trasporti, della logistica e dell’energia. Si tratta, in particolare, di ferrovie, strade e porti. In questi casi i finanziamenti avvengono soprattutto attraverso prestiti di fondi e offerta di capacità operativa e non in investimenti diretti in imprese estere.

Inoltre, la grandissima maggioranza dei fondi proviene da istituzioni pubbliche cinesi: banche di sviluppo (come Export-Import Bank of China e China Development Bank), banche commerciali pubbliche (come China Construction Bank e Bank of China) e altre grandi imprese pubbliche. Gli investimenti di imprese private cinesi sono meno del 10% e pochissimi sono quelli di istituzioni estere.

Per il momento il tentativo del governo cinese di ampliare le fonti di finanziamento ha avuto scarso successo, nonostante la creazione dell’Asian Infrastructure Development Bank e il memorandum firmato con le altre grandi banche multilaterali di sviluppo (come la Banca mondiale e le Banca europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo) per sostenere la via della seta (che peraltro non menziona gli standard per il finanziamento sostenibile).

Il rischio, per i paesi che ricevono i fondi cinesi, è quello di non riuscire a ripagare il debito e di perdere la proprietà dei progetti finanziati, come è successo per un porto in Sri Lanka passato in mani cinesi. La Malesia, per esempio, ha cancellato tre progetti che non può permettersi. In Europa, è esposto a rischi il Montenegro, che ha avviato un progetto infrastrutturale di 1,1 miliardi di dollari (più di un quarto del suo pil), finanziato per l’85% dall’Export-Import Bank of China.

 

QUALE STRATEGIA EUROPEA? Esistono, però, altri modi per i governi, in particolare quelli dei paesi europei, di partecipare con mutuo beneficio alla nuova via della seta. Uno è quello di investire direttamente in questi progetti: un esempio riguarda l’autorità pubblica del porto di Duisburg, in Germania, che, avendo un ruolo strategico nei rapporti commerciali tra Europa e Asia, ha deciso nel 2014 di acquisire una quota del 20% di un nuovo parco logistico internazionale in Cina.

È anche possibile investire in infrastrutture strategiche in Europa, con fondi nazionali o europei, con un coinvolgimento della Cina. È il caso di un progetto di una ferrovia in Montenegro, finanziato dalla Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo e dalla Banca Europea degli Investimenti e affidato a una società cinese.

In generale, però, gli investimenti cinesi in Europa, negli Stati Uniti e nelle altre economie avanzate possono costituire un rischio per la sicurezza nazionale, specie in settori strategici come le infrastrutture, le nuove tecnologie e l’accesso a informazioni sensibili (per esempio, nel campo delle assicurazioni). Ciò è dovuto alla mancata applicazione da parte della Cina degli standard internazionali nella protezione dei dati personali e nello stato di diritto.

Per questi motivi negli Stati Uniti è stata riformata l’autorità di vigilanza sugli investimenti dall’estero cfius (Committee on Foreign Investment in the United States), per aumentarne poteri legali e le capacità tecniche, anche nel campo dei furti telematici e del diritto internazionale.

In Europa, invece, manca un’istituzione comune di controllo degli investimenti dall’estero. Al momento solo 12 paesi (tra cui Germania, Francia e Italia) sui 28 che compongono l’Unione Europea, hanno un meccanismo nazionale di vigilanza per motivi di sicurezza nazionale o di ordine pubblico. Inoltre, i sistemi nazionali differiscono in molteplici aspetti e non esiste un meccanismo di coordinamento nel caso in cui gli investimenti abbiano effetto in più di un paese.

Recentemente la Commissione europea ha presentato un’articolata proposta per colmare questo ritardo, delineando un meccanismo comune di vigilanza, con la creazione di un gruppo di coordinamento per lo screening degli investimenti dall’estero, presieduto dalla Commissione stessa e con una rappresentanza di tutti gli stati membri.

 

 

 

[1] Si veda Fabrizio Traù, “La globalizzazione e lo sviluppo industriale mondiale”, Rivista di Politica Economica x-xii, 2016.

[2] Si veda Cristina Pensa e Matteo Pignatti, “Dazi USA: danni per tutti e rischi di guerra commerciale”, Nota dal csc n. 18-01, 2018.