international analysis and commentary

Come contenere il rischio Cina

2,341

 La sfida cinese non è più quella di una volta. E’ in corso nel paese una terza rivoluzione – dopo la prima di Mao nel 1949 e la seconda di Deng a fine anni ’70 – che sta trasformando profondamente la Repubblica popolare. Il ruolo della Cina come grande potenza economica si accompagna a una svolta di politica interna verso un nazionalismo più assertivo ed esplicito. Ne sono segnali e strumenti il forte aumento delle spese per la Difesa, la proiezione navale, la costruzione della prima base militare in Africa (Gibuti).

La concentrazione del potere attuata negli ultimi anni dal Presidente Xi Jinping fa leva sui successi economici del “capitalismo alla cinese”: il trend di crescita, tuttavia, appare in deciso rallentamento e la leadership confuciana-comunista utilizza pulsioni nazionalistiche per rafforzare la propria legittimità. La visione del mondo promossa da Pechino pone di nuovo al centro l’Impero di Mezzo e immagina una sorte di “destino manifesto”: la Repubblica popolare del XXI secolo si considera una potenza ineluttabile. Con la terza rivoluzione, si chiude l’epoca del basso profilo in politica estera teorizzato da Deng Xiaoping.

Ciò determina una contraddizione di fondo, per il regime cinese e i suoi interlocutori occidentali: Pechino ambisce a un ruolo di leadership globale in un sistema internazionale originariamente fondato  su regole (liberali) quasi antitetiche a quelle (illiberali) su cui si basa la Cina di oggi. Che è quindi, per definizione, una controparte ambigua. Per gli Stati Uniti, legati a Pechino da intrecci economici e finanziari, la Cina è comunque il grande avversario del XXI secolo. Per l’Europa – si legge nel documento strategico presentato a Bruxelles in preparazione del vertice UE-Cina del 9 aprile prossimo – è molte cose insieme: un partner economico, un competitore tecnologico e un rivale sistemico. Il Memorandum of Understanding firmato dall’Italia ignora questa complessità. Dal punto di vista di Washington e delle grandi capitali europee, è un vantaggio che Roma ha concesso a Pechino, per debolezza o per opportunismo.

Nella nuova sfida cinese rientra il maggiore progetto geopolitico che Pechino sta perseguendo, la Belt and Road Initiative (BRI), i corridoi economici – terrestri e marittimi –  della Nuova Via della Seta. Il progetto, con alle spalle le Banche di Stato cinesi e la forza finanziaria della Asian Infrastructure Investment Bank, apre grandi opportunità anche per i porti italiani. Ma ha a sua volta aspetti preoccupanti, dal momento che appare al tempo stesso come uno strumento di sviluppo euro-asiatico, come un metodo di penetrazione cinese e come una visione del mondo. In teoria, l’Italia dovrebbe cogliere il primo aspetto, contenendo o respingendo gli altri due.

Vedremo in futuro dove cadrà l’equilibrio, fra rischi e opportunità. Il rischio, naturalmente, è che l’Italia sia la prima grande economia europea e il primo paese del G-7 a ficcarsi nella “trappola” cinese:  ossia ad accettare nei fatti, a causa della propria vulnerabilità, condizioni finanziarie e industriali che potrebbero nel lungo periodo danneggiarla. E danneggiare di conseguenza l’Europa. La Cina avrebbe vinto così questa partita, allargando la sua proiezione dalla periferia al centro dell’Unione europea. E l’Italia sarebbe considerata, con più ragione di quanto non avvenga oggi, il “ventre molle” dell’UE.

All’opposto, se l’Italia parteciperà alla BRI tenendo ferme le regole che l’UE sta finalmente mettendo sul tavolo (monitoraggio degli investimenti esteri, reciprocità, norme trasparenti sugli appalti, sicurezza del 5G,etc) l’accordo bilaterale con la Cina potrà anche inserirsi in una logica europea. Ma l’Italia ha l’onere di dimostrare che sarà davvero così: non basta dirlo, bisogna farlo.

La verità molto semplice è che esercitare la golden power nazionale, in un rapporto così squilibrato come quello con la Cina, non basta. Serve anche una golden power europea. E l’Italia non può permettersi di perdere, a favore dell’apertura alla Cina, né l’appoggio degli Stati Uniti né un rapporto di fiducia con Francia e Germania. Basta misurare le poste in gioco sui vari fronti geopolitici – sicurezza, quote di mercato, investimenti – per rendersene conto. La gestione della visita di Xi, di conseguenza, non termina oggi. Comincia oggi, con l’Italia che dovrà dimostrare di sapere cogliere opportunità economiche senza creare rischi: per sé e per il suo sistema di alleanze. 

 

 

 

* Una versione di questo articolo è uscita su La Stampa del 24 marzo