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La crisi acuta e la possibile svolta in Venezuela

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“Stiamo fronteggiando – e sconfiggeremo – un tentativo di colpo di Stato orchestrato dalle destre sotto la tutela di Washington, volto a privare il Venezuela della propria sovranità e instaurare un regime asservito all’impero statunitense e ai suoi alleati”. La massima carica statale venezuelana Nicolás Maduro raffigura così la concatenazione di eventi che ha portato il neopresidente (Juan Guaidó, esponente del partito Voluntad Popular) dell’Assemblea nazionale (AN) a proclamarsi capo del governo e dello stato. La AN è il parlamento del paese, che è in mano alle opposizioni benché sia stato esautorato da una sentenza del Tribunale supremo (organo istituzionale fedele al governo e a Maduro) a metà 2017.

Guaidó, però, per la sua proclamazione, ha invocato gli artt. 233 (a fronte di una mancanza del presidente eletto, il presidente del Parlamento ha la capacità di esercitarne le funzioni in via transitoria fino a nuove elezioni), 333 (la Costituzione resta vigente se sospesa con un atto di forza o altra via non contemplata dalla carta fondamentale; eventualità in cui ogni cittadino ha il dovere di collaborare al ristabilimento della democrazia) e 350 (il popolo venezuelano disconosce qualsiasi regime, legislazione o autorità contrari a valori, principi e garanzie democratiche, o che violi i diritti umani) della Costituzione chavista, redatta e adottata nel 1999, cioè durante il primo mandato di Hugo Chávez.

Juan Guaidó e Nicolás Maduro mentre arringano le folle dei rispettivi sostenitori

 

La mossa di Guaidó, giunta nel corso di nutrite manifestazioni antigovernative, ha ricevuto l’immediato riconoscimento da parte degli Stati Uniti e di alcuni paesi sudamericani, quali Colombia, Brasile, Argentina, Paraguay, Cile, Perù. Stando ai media Usa, Guaidó ha ricevuto il via libera della superpotenza il giorno precedente alla manifestazione in cui è avvenuta la proclamazione tramite una telefonata del vicepresidente Mike Pence. A giochi fatti, Pence ha ribadito il riconoscimento all’AN, il supporto ai manifestanti e l’ennesimo avvertimento al “dittatore” Maduro.

La presa di posizione di Washington arriva sulla scia del disconoscimento a opera dell’AN dell’insediamento (10 gennaio) di Maduro. Il secondo mandato dell’erede di Chávez si basa sul risultato elettorale del maggio 2018, ritenuto però irregolare dalle opposizioni, da gran parte dei Paesi vicini (confluiti nel Gruppo di Lima) e dall’Occidente, USA in testa e UE a seguire seppur con maggiore prudenza. Il parlamento ha approvato il 15 gennaio una dichiarazione che definisce Maduro “usurpatore” e avoca le prerogative e competenze riconosciute all’AN dalla Costituzione, promettendo l’amnistia per i funzionari militari e civili che collaborino alla restaurazione della democrazia e invocando un governo di transizione fino a libere elezioni.

Maduro, da parte sua, ha incassato il sostegno di Russia, Cina, Bolivia, Cuba, Messico (la cui posizione è quella di promuovere un dialogo per la riconciliazione nazionale, assieme all’Uruguay), Turchia, Iran, Siria, con la motivazione della contrarietà all’ingerenza esterna di paesi terzi in uno Stato sovrano. Sul piano interno con Maduro stanno gli alti comandi militari venezuelani, ossia quella parte della boliborghesia cresciuta sotto Chávez che finora più ha beneficiato del madurismo, in termini finanziari e di influenza, e che oggi più che mai è arbitra ultima della contesa pluriennale per la guida del paese.

Maduro, dopo aver denunciato davanti al mondo il “tentativo di golpe”, si è detto pronto a dialogare con Guaidó. Un’offerta prontamente rifiutata da quest’ultimo, che vuole la convocazione di una nuova tornata elettorale e che ha indetto nuove manifestazioni nei prossimi giorni, reiterando l’invito ai militari a disconoscere Maduro. L’apertura al dialogo di Maduro è stata rispedita al mittente da Guaidó poiché sulla falsa riga di quelle strumentali che dal 2013 a oggi hanno permesso al presidente venezuelano di sgonfiare la pressione interna e internazionale mentre, di fatto, l’amministrazione pubblica passava in mano militare. La stessa tattica dilatoria, sostenuta dalla narrazione “anti-imperialista”, portato anche stavolta l’erede di Chávez da un lato a dichiararsi pronto a incontrare Trump e “l’agente dei gringos” Guaidó, ma dall’altro a mettere le Forze armate in stato d’allerta e annunciare esercitazioni generali dal 10 al 15 febbraio.

Frattanto, si susseguono le indiscrezioni sull’arrivo in Venezuela di contractors, tra gli altri, russi e colombiani. Maduro ha altresì reso nota la sospensione (cui si è naturalmente opposto Guaidó) dei rapporti diplomatici con gli Stati Uniti, concedendo 72 ore ai funzionari statunitensi per lasciare il paese. Washington ha reagito dichiarando illegittima la decisione di Maduro, salvo rimpatriare il corpo diplomatico non indispensabile ma senza chiudere l’ambasciata; dal canto loro, le autorità di Caracas hanno garantito ai funzionari Usa rimasti ulteriori 30 giorni per l’espletamento delle attività necessarie.

Lo scenario internazionale che fa da contorno alla lotta per il potere in Venezuela è mutato rapidamente nell’ultimo periodo. Mentre la profonda crisi socio-economica e migratoria del paese è sempre più grave, la virata a destra del Sudamerica – sublimata dall’elezione e dall’insediamento di Jair Bolsonaro in Brasile – ha rivitalizzato le opposizioni a Maduro. In aggiunta c’è  stato il ricambio di personalità-chiave nell’amministrazione Trump: dallo staff del Presidente sono usciti Rex Tillerson, James Mattis e H.R. McMaster, molto più prudenti e scettici del commander-in-chief sull’eventuale opzione militare in Venezuela; li hanno sostituiti Mike Pompeo e John Bolton, fautori di un atteggiamento più aggressivo contro la “trojka della tirannia” rappresentata da Venezuela, Cuba, Nicaragua. Infine, Donald Trump ha nominato Elliott Abrams incaricato speciale per il Venezuela: Abrams è stato protagonista della controversa politica latinoamericana degli Usa durante le presidenze Reagan, e alcuni lo additano come macchinatore del tentato golpe contro Hugo Chávez nel 2002 durante il primo mandato di George W. Bush.

Una questione concreta di grande rilevanza è di tipo economico: il possibile passaggio del patrimonio dello Stato – tra cui Citgo, la sussidiaria statunitense della compagnia petrolifera nazionale venezuelana PdVsa, e le riserve in oro e valuta estera detenute presso banche estere –– sotto il controllo dell’esecutivo a interim presieduto da Guaidó. La extrema ratio per Washington resta l’imposizione di un embargo petrolifero; questo però, se da una parte assesterebbe il colpo di grazia alle finanze di Caracas, dall’altra affamerebbe ulteriormente la popolazione e scontenterebbe settori rilevanti in termini elettorali e finanziari dell’industria petrolifera USA, aumentando altresì l’incertezza sul mercato energetico globale e riverberandosi sugli affari che la superpotenza (primo partner commerciale del paese caraibico) intrattiene con il Venezuela, ricchissimo di petrolio (primo al mondo per risorse certificate) – oltre che di altre risorse naturali (quali gas e oro). Spingendo Caracas definitivamente fra le braccia dei rivali di Washington.

In ogni caso, i pacchetti sanzionatori individuali recentemente imposti da Washington contro la cerchia di Maduro, la rifinanziarizzazione del debito e la commercializzazione dell’oro venezuelani – misure volte a circoscrivere le disponibilità economiche dell’esecutivo venezuelano – di pari passo alla nuova spinta delle opposizioni, all’inasprimento delle crisi socio-economica interna e migratoria, alimentano la pressione su Caracas. Di fatto la Casa Bianca ha atteso e spinto affinché emergesse un attore interno in grado di coagulare il dissenso e ricevere il supporto internazionale per tagliare legittimità e fondi al governo di Maduro.

Parimenti, gli USA premono diplomaticamente nell’Organizzazione degli Stati Americani (OAS, il forum che racchiude tutti gli stati del continente americano) e alle Nazioni Unite, direttamente o tramite i propri accoliti. E i principali attori geopolitici della regione hanno de facto o de jure isolato Caracas dai consessi regionali. Dopo essere stata sospesa dal Mercosur e avversata in sede OAS, Caracas ha visto i presidenti di Colombia e Cile proporre a inizio 2019 l’istituzione di un organismo regionale (Prosur) incaricato di “mettere fine alla dittatura” e restaurare la democrazia in Venezuela, soppiantando l’Unasur (Unione delle nazioni sudamericane), creata nel 2004 su impulso degli allora presidenti di Venezuela e Brasile, Chávez e Lula da Silva, come camera di compensazione geopolitica in Sudamerica contraria agli Stati Uniti e alla loro influenza sul “cortile di casa”.

Proprio la deriva del governo Maduro aveva spaccato l’Unasur a inizio 2017, determinando la creazione del “Gruppo di Lima” che disconosce la legittimità del capo di Stato venezuelano. Quanto alle Nazioni Unite, come preventivabile, l’ultima riunione del Consiglio di Sicurezza convocata dagli USA, tenutasi il 26 gennaio, ha comprovato la spaccatura in due blocchi contrapposti: di quello pro-Maduro fanno appunto parte Russia e Cina – con il loro potere di veto. Dopo un iniziale tentennamento, anche l’UE ha sciolto le riserve e concesso 8 giorni a Maduro per convocare nuove elezioni, pena il riconoscimento di Guaidó.

Paesi che nel 2017 hanno formato il “Gruppo di Lima” (Wikipedia)

 

Trump e soci, da Bolton a Pompeo, hanno affermato nelle ultime ore che tutte le opzioni restano sul tavolo. Eppure l’idea di un’azione militare, quandanche sotto le vesti di un intervento umanitario, non piace alla maggior parte del subcontinente, neanche a un governo dichiaratamente “anti-comunista” come quello del Brasile di Bolsonaro. E soprattutto – nel caso i militari venezuelani restino fedeli al presidente Maduro, come ha confermato il ministro della Difesa Vladimir Padrino Lopez –– l’azione scatenerebbe probabilmente una guerra civile, dato anche il coinvolgimento (formale e non) di attori esterni.

Gli USA, piuttosto, sembrano puntare sulla strategia della “massima pressione” cara all’ inquilino della Casa Bianca, dal fronte diplomatico a quello finanziario, facendo perno sull’abbrivio di un’opposizione atomizzata, sinora incapace di articolare una risposta organica alla deriva del paese. Allo stesso tempo, Washington e l’opposizione cercano di allargare il malcontento anche a settori finora fedeli al governo – in primis l’esercito: si pensi alle defezioni (l’ultima è giunta dal colonnello José Luis Silva, addetto militare all’ambasciata venezuelana a Washington, che ha riconosciuto Guaidó come legittimo presidente) e alle isolate ma ricorrenti sollevazioni (accusate da Maduro di essere eterodirette) di gruppi disparati di soldati e quadri medi delle Forze armate.

Nei prossimi giorni la spirale che attanaglia il paese caraibico baluardo dell’”anti-imperialismo” continuerà ad avvitarsi. Ci saranno altre dimostrazioni di piazza e la partita per il controllo degli asset statali esteri venezuelani entrerà nel vivo. La partita per il futuro del Venezuela resta aperta, l’appoggio dei militari l’ago della bilancia.