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La nuova era del governo diviso

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È una partita a poker quella che si sta giocando nel nuovo Congresso. Al tavolo c’è Donald Trump, infuriato, erratico e che gioca bluffando, ci sono i membri del suo partito a fare da comprimari, a cui Trump stesso chiede di fare i bari; e poi c’è il Partito Democratico che vuole andare a “vedere” le carte del Presidente, prendendo finalmente le redini del “subpoena power”, ovvero la capacità di indagare l’amministrazione, grazie alla maggioranza appena conquistata alla Camera alle mid-term di novembre. La partita può andare avanti ancora a lungo, in un estenuante braccio di ferro, bloccata tra un bluff del Presidente e l’attesa dei democratici per gli sviluppi del “Russiagate”, ma raffigura con pennellate potenti, già ora, uno scenario futuro conflittuale.

SHUTDOWN. Il 3 gennaio, infatti, il giorno in cui si è insediato il 116esimo Congresso degli Stati Uniti, è iniziata la nuova era del governo diviso. E non soltanto perché alla Camera i Democratici sono in maggioranza e al Senato lo sono invece i Repubblicani, dopo otto anni di monocolore conservatore in entrambi i rami. Ma già prima dell’insediamento dei nuovi congressmen, il Presidente aveva cercato lo scontro aperto tra le due fazioni: il 22 dicembre Trump decideva infatti di bloccare l’annuale rifinanziamento delle spese amministrative federali, provocando lo “shutdown”, ovvero l’interruzione (parziale) delle attività finanziate dal governo (tra cui i controlli di sicurezza aeroportuali, musei, zoo, parchi, ispezioni sanitarie, buoni pasto per gli indigenti), compresa l’erogazione degli stipendi per 800mila impiegati. Un blocco imposto all’intero paese e che il Presidente intende protrarre fino a quando il Partito Democratico al Congresso non consentirà al finanziamento del muro al confine con il Messico: una spesa da 5,7 miliardi di dollari per estendere per altri 215 miglia le barriere già esistenti.

Donald Trump e la Speaker della Camera Nancy Pelosi

 

Al ricatto, però, i Dem non intendono piegarsi, perché il cuore della trattativa è altrove e, anzi, cercano di far leva sulle divisioni interne al GOP, soprattutto al Senato, dove i Repubblicani potrebbero, se lo volessero, mettere fine allo shutdown (ne hanno il potere). 12 Senatori su 53, tra le fila della maggioranza repubblicana, sostengono una parziale riattivazione delle attività sospese con lo shutdown: quattro tra questi supportano una ripresa di quelle principali senza alcuna negoziazione sui fondi per il muro. Lindsey Graham, uno dei più stretti alleati del Presidente, ha proposto invece assieme ad altri senatori una sorta di sospensione per il tempo necessario alla trattativa sul muro, ma il piano è stato cassato da Trump, che ha deciso, in queste ore, di rigettare la palla nel campo avversario, proponendo una sospensione di tre anni per un milione di persone che hanno perso la protezione temporanea, in cambio del finanziamento del muro. Ma anche a questa proposta Pelosi ha chiusa la porta: nessuna trattativa se Trump non interrompe lo shutdown. Intanto al Senato Mitch McConnell, leader della maggioranza Repubblicana, macchina di inserire questa proposta in un pacchetto di misure più ampio, così da dividere i Democratici e, i Democratici alla Camera tentano di fare lo stesso con un altro insieme di provvedimenti.

DIVIDED WE STAND. In questo senso il concetto di “governo diviso” incarna non soltanto due compagini politiche agli antipodi, ma mette in risalto anche le idiosincrasie interne agli stessi partiti e il caotico scenario che ne deriva. Ad una Camera a guida democratica che ha il potere di mettere sotto procedura di impeachment il Presidente (e lo farà), con al suo interno un gruppo di deputati che spingono per un rinnovamento radicale per il quale la nomenclatura di partito non sembra pronta, si contrappone un Senato in cui i membri del GOP, pur in maggioranza, sono ai ferri corti con il leader in carica, ma restano svogliati e incapaci di avanzare con autonomia.

Sintomatico ciò che è accaduto in Senato a dicembre, prima dell’insediamento del nuovo Congresso: alcuni Repubblicani hanno infatti votato con i Democratici due  risoluzioni dai contenuti anti-sauditi, una per togliere il sostegno militare alla guerra in Yemen, e un’altra che accusa il principe saudita Mohammed bin Salman dell’assassinio del giornalista Jamal Khashoggi, il dissidente rifugiato a Istanbul che aveva tra l’altro la residenza negli USA. Il voto è una chiara sconfessione della politica filo-saudita portata avanti in questi due anni da Trump e dalla Casa Bianca.

Ma di mancata coesione sembra soffrire anche il Partito Democratico, sebbene compatto sul fronte della trattativa sullo shutdown. Il 3 gennaio, quando la Dem Nancy Pelosi è stata eletta Speaker (Presidente) della Camera, sono stati ben 15 i rappresentanti democratici che hanno votato contro la candidata del proprio partito.

La nuova era del governo diviso peserà sul prossimo lavoro del Congresso: su un totale di 535 rappresentanti, tra Camera e Senato, 100 sono matricole; ciononostante, il Congresso è ancora appeso ad alcune delle irrisolte vicende della legislatura parlamentare precedente, quando è stato dominato dal tentativo trumpiano di demolire leggi e strategie avviate dalle amministrazioni passate.

Dall’altra parte, il bagno di umiltà a cui il Partito Democratico si è sottoposto dopo la sconfitta presidenziale ha spostato il partito “più a sinistra”, dunque più lontano da possibili compromessi con i repubblicani. Il partito si è lanciato in battaglie come la riduzione dei costi dell’healthcare, complementare al grande sopravvissuto “Patient Protection and Affordable Care Act” (Obamacare), che Trump ha tentato di smontare senza riuscirvi; la revisione del sistema di finanziamento dei candidati alle elezioni che già Hillary Clinton prima del 2016 aveva immaginato come soluzione per ridurre l’influenza dei grandi donatori e che i membri del partito dell’asinello hanno appena presentato alla Camera sotto forma di tre disegni di legge; la legge sul controllo delle armi, che i Democratici tentano di far passare al Senato da prima dell’arrivo di Trump, proprio per potenziare i controlli sul background di ogni cittadino che acquista un’arma da fuoco, ma su cui sia la Casa Bianca che i membri del GOP hanno zero interesse a discutere. Questioni chiave su cui i Democratici intendono costruire la campagna per il 2020.

LA BATTAGLIA AL CONGRESSO SU IMMIGRAZIONE E RUSSIAGATE. Partiamo proprio dai nodi insoluti, innanzitutto l’immigrazione: Trump ha vinto le elezioni del 2016 (anche) sulla base di due promesse: la costruzione del muro e l’annullamento della sospensione della deportazione di oltre 740mila migranti irregolari, i cosiddetti “dreamers” (sospensione concessa da Obama attraverso il programma DACA – Deffered Action for Childhood Arrivals. Per tutto il 2017 il Partito Democratico ha trattato con Trump per legare i fondi per l’estensione del muro a un’amnistia per i dreamers o un vero e proprio “Dream Act”, cioè una legge le cui proposte sono già depositate al Congresso. Sia sul Dream Act che sul DACA, diversi Senatori del GOP erano e sono disposti a trattare, utilizzandolo come moneta di scambio per il muro e lo shutdown.

Durante questo lasso di tempo, Trump è sembrato dire ai democratici: se avete da aggiungere qualcosa sul piatto si può negoziare, anche se è molto probabile che la Corte Suprema, dove la maggioranza conservatrice si è rinsaldata con l’arrivo di Brett Kavanaugh, mi consenta di annullare il DACA. Nel corso del 2018 la Casa Bianca tuttavia ha fatto una clamorosa marcia indietro alla Camera, dove la negoziazione sul DACA era in corso su due disegni di legge. La virata (ancora più) a destra di Trump, che alcuni Repubblicani – tra cui l’ex Speaker della Camera Paul Ryan – hanno tentato di mitigare nel tentativo di salvare il lavoro fatto a livello bipartisan, ha coinciso con la pratica della separazione delle famiglie dei migranti al confine (da aprile) e soprattutto con la porta sbarrata ai democratici. Una scelta dovuta al timore di perdere voti alle mid-term, cosa che poi è comunque accaduta.

Non è un caso che nel suo discorso per l’elezione a Speaker della Camera Nancy Pelosi abbia menzionato Ronald Reagan, uno dei suoi ultimi discorsi da presidente, enfatizzando l’importanza dei confini aperti: “If we ever closed the door to new Americans, our leadership in the world would soon be lost”. Cercando (anche disperatamente) di ricondurre l’attenzione alla questione cruciale: una legge sull’immigrazione frutto dei due rami del Congresso e che si occupi di creare un percorso di cittadinanza.  Pelosi ha citato, per cortesia istituzionale, anche George Bush senior (venuto a mancare a novembre) ma non ha mai menzionato Trump, stavolta per sgarbo tutto politico. Ed in risposta al discorso dall’ufficio Ovale che lo stesso Trump ha rivolto in tv a venti milioni di americani sei giorni dopo, il 9 gennaio, Pelosi ha invitato i neo eletti repubblicani ad impedire che lo shutdown prosegua “perché non ha nulla a che vedere con il muro”.

Nel discorso del 9 gennaio, il Presidente è infatti arrivato a parlare di crisi umanitaria al confine con il Messico e del muro come unico argine alla crisi, continuando a chiudere ogni spiraglio di dialogo. Ha così sottovalutato però quanto questa strategia di chiusura e immobilismo rischi di comportare effetti collaterali anche seri, come dimostrano appunto le elezioni di metà mandato in cui il GOP ha perso più seggi di quanto non abbia fatto (in un mid-term) dal Watergate.

L’altro grande tema, che però non viene dal passato irrisolto dei lavori di Capitol Hill ma da quello del Presidente e che probabilmente tiene Trump sveglio la notte, è il “Russiagate”. L’inchiesta, ancora in corso, condotta dal procuratore speciale Robert Mueller, ha prodotto finora diciassette faldoni e si occupa di ricostruire e individuare in che modo si sono compiute le interferenze russe nelle campagna presidenziale del 2016 – è accertato che vi furono – chi è coinvolto e che vantaggi ne ha ricavato. L’inchiesta ha già prodotto eccellenti arresti, imputazioni e rimpasti di governo: tra le prime vittime Paul Manafort, manager della campagna di Trump, che si è dichiarato colpevole e la cui sentenza dovrebbe arrivare per marzo; colpevoli (per aver mentito al Federal Bureau of Investigation ed al Congresso) si sono dichiarati, rispettivamente, anche l’ex consigliere per la sicurezza nazionale Mike Flynn e l’ex avvocato di Trump Michael Cohen.

Il vero nocciolo della questione sta in due ipotesi. La prima: lo sforzo di disturbo compiuto dai russi nelle elezioni che portarono Trump alla Casa Bianca, è stato fatti in collaborazione con lo stesso Presidente – per il quale Mosca ha tifato pubblicamente? La seconda: l’interferenza a supporto di pro-Trump è continuata anche dopo il voto in un’azione strategica sulle reti sociali, come spiegano due rapporti consegnati prima di Natale da altrettanti gruppi di ricercatori incaricati dalla commissione intelligence del Senato?

Il Partito Democratico, oltre al pacchetto di tre leggi che contiene il Disclosed Act per svelare la lista dei grandi donatori della campagna presidenziale, ora che è maggioranza alla Camera può ricorrere al “subpoena power”, ovvero indagare l’amministrazione e guidare quindi la commissione di inchiesta che potrebbe avviare la procedura di impeachment.

Trump sta tentando di contenere la nuova mole di informazioni che già arriva dall’attività investigativa parlamentare come si fa mettendo le mani davanti ad un consistente getto d’acqua. I Democratici, infatti, hanno promesso che indagheranno  anche sulle dichiarazioni fiscali del Presidente e gli altri aspetti che riguardano eventuali conflitti di interessi.

Si spiega quindi con un argine contro una montagna che può sprofondare, l’accelerazione per i rimpasti di governo compiuta da Trump. Il Presidente ha scelto come nuovo Ministro della Giustizia William Barr, già procuratore ai tempi dei Bush presidenti ed ex-CIA, al posto di Jeff Sessions (cacciato dopo le elezioni di metà mandato per aver ricusato se stesso nel condurre l’inchiesta poi piombata nelle mani di Mueller). Al posto di un funzionario fedele come Barr, sarebbe dovuto subentrare Rod Rosenstein, numero due di Sessions, ma Trump ha scelto ancora un altro fedelissimo anche come vice-Attorney General, Matthew Whitaker, che intende tagliare i fondi per gli accertamenti parlamentari e limitare il loro raggio di azione. L’idea è resistere due anni e arrivare al 2020 illeso: perché gli elettori di Trump non sembrano troppo interessati alla super inchiesta di Mueller.

LA CONTESA SULLA POLITICA ESTERA. Infine l’ultimo grande nodo su cui la Presidenza sta imprimendo un cambiamento notevole, demolendo l’opera di Obama è la politica estera in Medio Oriente. La nuova dottrina è stata enunciata il 10 gennaio dal Segretario di Stato Mike Pompeo all’Università americana al Cairo, a margine del suo incontro con il Presidente egiziano Abdel Fatah Al-Sisi. Pompeo ha sostanzialmente smontato le tesi della presidenza Obama, che già nel 2009 aveva presentato in segno di discontinuità con l’era Bush.

A new beginning” è il concetto presentato i dal capo della diplomazia di Washington, che riposiziona il ruolo degli Stati Uniti frontalmente contro l’Iran, ritirando totalmente l’apertura di credito data da Obama a Teheran; cancella la soluzione de “due Stati” per la questione palestinese schierandosi con l’annessione israeliana; rinnova la minaccia contro i regimi che ospitano membri di gruppi terroristici, compreso ovviamente lo Stato Islamico; e accantona la questione democrazia e diritti umani, puntando a rafforzare la partnership con i sauditi.

Il discorso di Pompeo cade nel mezzo di un’altra grande manovra: il ritiro dalla Siria e dall’Afghanistan annunciato a dicembre da Trump. La decisione ha lasciato nell’incertezza i piani americani per il Medio Oriente, come evidenziato impietosamente nella conseguente lettera di dimissioni (pubblica) che Jim Mattis, Segretario alla Difesa, ha indirizzato al presidente.

Il nuovo inizio si scontra già con i fatti: la bomba rivendicata dall’Isis pochi giorni fa, nel nord della Siria, e che ha ucciso alcuni militari americani. A ribadire che l’Isis, contrariamente a quanto dichiarato da Trump per giustificare il ritiro delle truppe, non è stato affatto sconfitto. Ma l’attacco ha colpito, oltre le vite dei militari e dei civili coinvolti, anche la credibilità della presidenza, perché mette a nudo quanto sia rischioso lo smantellamento di partnership e rapporti intessuti in tutti questi anni prima dell’arrivo di Trump.

Lo stesso fronte interno al GOP, del resto, non ha lesinato critiche nei confronti del Presidente, compreso ancora una volta l’alleato di ferro della casa Bianca, Lindsey Graham; intanto l’apparato della sicurezza (dal Consigliere alla Sicurezza Nazionale John Bolton ai militari) è in azione per limitare i danni della decisione precipitosa del Comandante in Capo, allungando i tempi del ritiro siriano.

Viene da chiedersi se anche su questo fronte il giocatore Trump stia bluffando o magari abbia in serbo un altro scossone, come quello annunciato il 17 gennaio sulla revisione e il ri-ammodernamento del sistema di difesa missilistico americano. Una carta da vecchia guerra fredda, ma i cui costi, imponenti, stridono con la realtà di un paese ostaggio dello shutdown più lungo della storia.