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L’autonomia di Hong Kong e l’inesorabile abbraccio cinese

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«Questo non è un giorno di festa nazionale, ma di tragedia nazionale». Come ogni primo di ottobre, anniversario della nascita della Repubblica popolare cinese, migliaia di cittadini di Hong Kong hanno sfilato per chiedere piena democrazia e il rispetto del modello “un Paese, due sistemi”. La formula, pensata dall’ex leader comunista Deng Xiaoping e sancita dall’accordo tra Cina e Gran Bretagna del 1997, prevede che la regione amministrativa speciale (Sar) in cui si trova la ex colonia britannica rimanga sostanzialmente autonoma fino al 2049.

Alla manifestazione di quest’anno, però, hanno partecipato poche migliaia di persone contro le decine di migliaia del 2017. Hong Kong si ritrova così immersa in uno strano paradosso: se da una parte cresce l’ingerenza del Dragone nei problemi e nella vita della città, e si moltiplicano i partiti e i gruppi civili che chiedono più democrazia e autonomia da Pechino, anche come risultato delle grandi manifestazioni e della partecipazione degli scorsi anni, dall’altra gli abitanti “normali” sembrano sempre più disillusi e rassegnati a fare parte di “un Paese” senza i “due sistemi”.

La tensione politica in città è alta. Il 24 settembre, per la prima volta dal 1997, le autorità di Hong Kong hanno bandito formalmente un partito politico, l’Hong Kong National Party, che si batte per ottenere l’indipendenza della Sar dalla Cina. Il ministro della Sicurezza della città, John Lee, ha dichiarato in un breve comunicato che la decisione è legale in base all’Hong Kong’s Societies Ordinance, una legge (della cui esistenza nessuno si era mai accorto) che risale all’era coloniale e che richiede a tutti i gruppi e organizzazioni della società di registrarsi presso la polizia. La legge autorizza la messa al bando di qualsiasi gruppo “nell’interesse della sicurezza nazionale, dell’ordine pubblico o della protezione dei diritti e delle libertà degli altri”. Lee ha aggiunto che il partito, fondato dal 28enne Andy Chan, giurando di usare «ogni mezzo» per ottenere l’indipendenza di Hong Kong dalla Cina, ha diffuso «odio e discriminazione contro il continente cinese». Io capisco, ha anche dichiarato, «che i cittadini siano preoccupati per la libertà di riunione. A Hong Kong c’è questa libertà, ma non è una libertà senza limiti».

Andy Chan, giovane leader democratico a Hong Kong

 

La decisione ha destato preoccupazione tra i residenti di Hong Kong, che pur desiderando e invocando in maggioranza più autonomia e democrazia dalla Cina, non hanno mai dimostrato di favorire la soluzione, giudicata troppo estremista, dell’indipendenza. Quando il presidente del Dragone Xi Jinping visitò l’anno scorso la città per celebrare i 20 anni dalla restituzione del 1997, avvisò il governo e i residenti di non superare la «linea rossa» e di non mettere in discussione la «sovranità della Cina»: «Ogni attività di sabotaggio sarà considerata come una sfida al potere del governo centrale e non sarà assolutamente permessa». A maggio Carrie Lam, l’attuale capo dell’esecutivo di Hong Kong, ponendosi sulla stessa linea di Xi, aveva dichiarato che qualunque candidato alle elezioni distrettuali di fine 2019 avesse fatto campagna per l’indipendenza, sarebbe potuto incorrere nell’esclusione dalla corsa elettorale.

Chi nel 2016 si è stupito per l’esclusione di quasi 10 candidati dalle elezioni per il Consiglio legislativo, tra i quali lo stesso Andy Chan e Joshua Wong (uno dei leader del Movimento degli ombrelli, che portò in piazza decine di migliaia di persone, per mesi, in favore della democrazia), è rimasto turbato dall’annuncio di Carrie Lam, visto che i consiglieri distrettuali hanno un ruolo consultivo, più che decisionale. La messa al bando del partito indipendentista ha rappresentato solo l’ennesima conferma dell’influenza crescente che Pechino ha sulla vita della città.

Come se non bastasse, Priscilla Leung Mei-fun, uno dei membri del Comitato sulla Basic Law, la mini Costituzione di Hong Kong, ha dichiarato che anche i gruppi cosiddetti “localisti”, come Demosisto, che parteggia per l’autodeterminazione della città, dovrebbero essere banditi. Davanti a questa sequenza di fatti, è più che comprensibile che un politico come Alan Leong Kah-kit, a capo del gruppo di opposizione Civic Party, dichiari: «Ormai chiunque invochi la democrazia è a rischio a Hong Kong. Che cosa succederà se Pechino stabilirà che gridare “No al governo del partito unico” supera la linea rossa? Aboliremo anche la libertà di espressione?».

La tensione è dunque alta. Nonostante questo sembra che i cittadini siano stanchi di conflitto politico e di manifestazioni. Il Movimento degli ombrelli  – nato nel 2014 con l’obiettivo di ottenere per Hong Kong un vero suffragio universale dalla Cina – ha suscitato profonde emozioni tra i residenti, scesi in piazza in massa per sostenere i giovani. Ma a quattro anni di distanza dall’inizio delle proteste, l’ala più dura e giovanile del movimento pro-democrazia non ha ottenuto nulla, generando così un senso di sconforto.

Anche i due grandi progetti infrastrutturali che uniranno ancora di più il continente alla Sar sono visti con preoccupazione. Il ponte di 55 chilometri, il più lungo del mondo, che collegherà Hong Kong, Macao e la città di Zhuhai sarà inaugurato a fine ottobre (la costruzione è iniziata nel 2011). È stata invece appena inaugurata la nuova linea ferroviaria ad alta velocità Guangzhou-Shenzhen-Hong Kong. Quando i residenti hanno scoperto che una parte della stazione di Hong Kong sarà gestita da funzionari cinesi, che applicheranno la legge di Pechino, non l’hanno presa bene (nessuno si è dimenticato dei librai invisi al partito comunista arrestati da agenti cinesi a Hong Kong a cavallo tra il 2015 e il 2016). Che la cerimonia di consegna ai funzionari si sia svolta in segreto e sia stata vietata ai giornalisti, non ha fatto che peggiorare le cose.

L’utilità economica di entrambi i progetti infrastrutturali è stata messa in dubbio da molti esperti, ma come notato da Willy Lam, uno dei commentatori politici cinesi più famosi, «è sempre stato ovvio che le ragioni politiche fossero altrettanto importanti di quelle economiche». L’obiettivo del governo cinese non è mai cambiato: dominare di fatto Hong Kong, integrandola inesorabilmente nel tessuto economico e sociale della Cina e cancellando la sua “specialità”, senza aspettare la scadenza naturale del 2049. E la città sembra esservi sempre più rassegnata.